Ugo Gangheri - Incedere di trame
Donatella Nonino
Osservando le opere di Ugo Gangheri si scopre il materiale di base con cui esse sono composte: sacchi usati per il trasporto del caffè. Nelle crettature che soggiogano la materia si trovano compromessi con il colore, con il ritmo geometrico, generosamente armonico, in una semantica interpretazione del viaggio interiore attraverso lo scandire lento del tempo che rappresentano.
La sua opera diviene linguaggio inconsueto, autonomo e restituisce una forma capace di trasferirsi dall’opera visiva al nostro percepito. Ci troviamo così ad inseguire il nostro mistero intimo e capaci, finalmente, di fermarci, di cedere alla lentezza del procedere, quasi a ritrovare il misticismo insito in noi, chiuso e racchiuso in strade abbuiate.
L’incontro di materiali così diversi come carta e tela di sacco con inclusioni di colore e ferro consunto dal tempo, si compenetrano con rarefatto equilibrio, ristabilendo un ordine delle cose che egli ci propone. La nostra osservazione diventa così esercizio meditativo, un privilegio di percezione, privo di ogni nostalgia del passato e come ordine delle cose per ritrovare la via.
Nel ciclo tematico “Abbracci” abbiamo la sensazione che la fusione delle trame che cede al passaggio del colore, rappresenti l’azione che dovrebbe appartenerci per poter attraversare, oltre l’immagine, un nuovo varco, un nuovo orizzonte. Ci permette inoltre di transitare attraverso la creazione e percepire come egli abbracci il suo sentire, mentre i pensieri trascendono, trasformandosi in azioni artistiche dove le mani, accostando fragilità e durezza sulla superficie della trama, assumono quel potere di mutare le cose.
“Il cielo che è dentro e fuori di noi contagia il nostro incedere” afferma Gangheri. Nelle sue tele “il cielo” si trasforma in un calice, dal quale l’Uomo può nutrirsi. Questo grande valore della vita, il rispetto di essa, emerge nel ciclo “Umanità”. In questo ciclo possiamo scoprire quanta fiducia l’artista riponga in tutti gli esseri senzienti: la strada segnata, illuminata, la si può percorrere in diversi modi.
La scelta di un materiale povero e ingiustamente definito fragile, come può essere il sacco di juta che porta il caffè durante il suo lungo viaggio attraverso terra e mare, è di per sé metafora più che calzante dell’essere umano.
Nel ciclo “Tracce” emergono le capacità insite in ognuno di noi di superare confini e ostacoli materiali e psichici e ci pone la domanda di quanto siamo consapevoli nell’essere padroni del tempo e di quanto, invece, sia il tempo a gestire la nostra esistenza.
Gangheri nella sua ricerca quarantennale, si è appropriato di un proprio linguaggio pittorico, di una propria cifra artistica. I segni, i materiali, le trame, i titoli, sono parti che compongono la poesia dell’opera e sono alla base di un approfondimento evolutivo sull’Uomo. Il suo lavoro è un sedimentare attraverso il tempo delle esperienze.
Negli anni sessanta Gangheri, ancora ragazzo, oltre ad ammirare i quadri del papà è affascinato dalla pittura di Van Gogh per il segno, i colori, la spontaneità. Nel tempo egli, ormai artista maturo per anagrafica e professionalità, evolve attraverso la conoscenza e l’ispirazione di tanti altri Maestri.
Non è una musica quella che lo accompagna nel centellinare dello svolgersi del suo lavoro, ma sono i suoni che l’umanità restituisce e segna nell’aria, nell’etere, pregna del segno dell’uomo e vissuta dentro e intorno a se stesso. Egli lavora nel suo studio immerso nella campagna friulana, dove i suoni che entrano dall’esterno gli offrono la percezione di essere parte integrante della natura e gli restituiscono la bellezza e il mistero della vita, quel mistero che ritroviamo affiorare con forza nelle sue tele.
Dal 2006 Gangheri utilizza per i suoi lavori sacchi grezzi di juta. Nel 2010 inizia “a togliere i fili”, una litania introspettiva, un rituale, un mantra che gli permette di inseguire il mistero. Il materiale consunto dei sacchi da caffè, carichi di storia e di viaggio, di fragilità e durevolezza sono “Tracce” che conducono alla ricerca da dove veniamo e cosa lasciamo dopo di noi. Il parallelo delle risposte si può trovare nella tangibilità dell’archeologia, che ci permette di scoprire le civiltà che ci hanno preceduto, facendoci sentire parte di un unico disegno e riconoscendo che anche quel percorso millenario è scritto dentro di noi.
Marzo 2023
Vitalità imprigionata.
Donatella Avanzo
Scrivere di Ugo Gangheri non è cosa semplice. Egli opera, in maniera sorprendente, sulla vicinanza di materia e materia, sulla variazione di superficie, sulla sostituzione di un colore con componenti di colore simile ma molto più ricchi di informazioni (lastre di ferro, carta, scarti industriali), derivanti dalla loro consistenza fisica, dal loro uso precedente e dal loro eventuale vissuto; infine, opera mediante l’origine dei contrasti tra materie diverse e attraverso un istintivo impianto geometrico dell’immagine da ottenere.
Ciò che è più importante nell’analisi dell’artista è il raggiungimento della forma e dello spazio mediante un rapporto di raffinato equilibrio tra i diversi elementi materici che si concretizzano in ogni sua opera.
Attraverso la detessitura di vecchi sacchi di caffè crea la forma geometrica da cui ha inizio la costruzione del suo atto artistico, come per esempio in “Vitalità imprigionata” dove il ferro arrugginito fronteggia lo sguardo dell’osservatore con fierezza e precisione.
Le sue opere sono venate da una grande spiritualità, con sviluppi formali che negli anni lo avvicinano a certe atmosfere dell’Arte Povera.
Le lame metalliche che paiono incidere e squarciare la scomputata trama della iuta attivano il suo linguaggio pittorico e ci spingono a vederci riflessi nelle nostre inevitabili fragilità.
Fragilità, ma anche inesauribile energia vitale rappresentata dai bagliori dell’incorruttibilità dell’oro presente anche nelle essenziali sculture esposte per la prima volta in questa mostra.
Il ricorso a entità organiche e inorganiche trasforma il suo linguaggio in un’esperienza corporea intesa come trasmissione sensoriale.
La vita pittorica di Ugo Gangheri è stata influenzata da artisti quali Burri, Fontana, Tapies, ma soprattutto da suo padre, anch’egli pittore e appassionato d’arte, che ha saputo trasferire in lui il dono della sensibilità che sta nella capacità di mettere in movimento e in discussione la forma.
Il suo interesse è quello di studiare gli aspetti materici dell’arte e le sperimentazioni che conducono l’artista e lo spettatore oltre la superficie del quadro.
In tutta la sua ricerca egli svilupperà anche una relazione del tutto personale con la cultura e l’instabilità sociale della storia attuale che porterà alla realizzazione di cicli tematici:
Tracce, in cui ricerca la sacralità dell’esistenza;
Muri, dove esplora le barriere che si creano nella società e nell’animo di ognuno di noi;
Umanità, con la sua riflessione sull’atteggiamento evolutivo dell’Uomo.
La ricerca costante di materiali che parlino della fragilità dell’essere umano viene riconosciuta dall’artista nelle lastre di ferro corrose che diventano simboli di quel male che è dentro di noi, che ci devasta e indebolisce, ma che può essere compreso e trasformato in energica creatività per concretizzare rilevanti opere artistiche.
Nei suoi lavori è sempre presente un gioco di metamorfosi e contrasti quali, per esempio, carta e ferro: leggerezza e pesantezza si incontrano in un quieto dialogo che tende ad armonizzare gli elementi. Il contrasto serve da cortocircuito visivo che spinge l’osservatore a fermarsi per comprendere il significato di quella vicinanza.
Ugo Gangheri, attraverso il dialogo tra materia organica e inorganica, è espressione di quella cultura e di quella storia che si oppone alla distruzione e all’oblio di questa nostra società detta Umanità.
20 marzo 2022
Scrivere l’altrove.
Andrea Gangheri
Contemplazione di un quadro. Una nave cargo con un carico in procinto di finire in acqua, o un palazzo con terrazze-ponte che corrono verso l'infinito?
Faccio un passo avanti per avvicinarmi al dipinto davanti a me.
Scopro trame di tessuto grezzo, scritte stampigliate "coffee", Italia-Italy" e poi tutto a destra in rosso "CHERRY", "41”, e poi in alto una cicatrice orizzontale che percorre tutta la superficie dipinta da parte a parte.
Ritorno un passo indietro per riempirmi gli occhi di questi colori bruciati, marroni, grigi, rosati, che graffiano l'iride e lasciano poche isole di non-colore dove l'occhio si può riposare e sentirsi al sicuro.
Mi giro di spalle, ripasso mentalmente la tela, cercando di andare oltre questo primo strato di forme e colori. Sento il profumo di juta di questo grande arazzo, sento i miei polpastrelli ancora segnati dalla sua superficie ruvida, quasi a richiamare la mia attenzione al qui e ora, a tornare con i piedi per terra e a smettere di fantasticare.
Ricordo una macchia di colore azzurro che si stacca dalla quasi monocromia di tutta la superficie.
Sarà questo piccolo elemento dentro a una forma che ricorda un calice a rappresentare la "Sacralità”, che l’artista ha scelto come titolo dell’opera? O saranno invece tutte queste sensazioni ed emozioni, provate davanti a questo quadro, che mi restituiscono la "Sacralità" della vita?
Giugno 2021
Fabio Merotto
Siamo abituati ad osservare che in una tela dipinta diventa spesso principale il soggetto rappresentato e i colori stesi, seppur con qualsiasi tecnica, sul supporto. In questi lavori di Ugo Gangheri è proprio il supporto ad avere senso nella sua pittura.
Tra l'altro si sono invertiti di ruolo il mezzo e il fine.
Se la tela, per necessità, è il mezzo e la pittura è il fine, con il suo fare Ugo Gangheri ha ribaltato la consuetudine, ed è proprio questa azione che ci pone delle riflessioni.
Nei suoi sacchi, quindi, la pittura è il mezzo e la tela è il fine, il risultato e l'obiettivo del suo atto creativo.
Quindi la sua pittura si ribalta; pare che la sua non sia una tecnica mista su sacco, bensì un sacco su tecnica mista. Gli esiti della sua pittura sono stati rivoltati come un tessuto in cui le cuciture sono messe in evidenza e non appaiono scomode.
Le cuciture sono linee che dividono il sacco in più piani pittorici che dialogano tra loro, senza che uno prevalga sull'altro.
I sacchi sembrano imbevuti di colore e l'autore fa emergere le diverse tramature che fanno rima con le campiture di colore.
Nei suoi sacchi la materia è supporto.
La ruvidezza della materia è sinonimo di sacrificio, fatica e sudore per il lavoro nelle piantagioni di caffè, come si legge nelle geometrie che l'autore pone in evidenza.
Un'opera non solo va osservata ma anche letta per fare nostra un'esperienza personale.
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Gennaio 2019
Alessandra Santin
Cecelia Ahern ricorda a Ugo Gangheri che è necessario scartare cose per trovare la materia che meglio si presta al proprio sentire. La trama di vecchi sacchi industriali, sottoposta a detessitura, gli consente di sconfinare oltre il visibile. Trafori e composizioni sapienti dichiarano quanto l’Oltre e l’Alto rappresentino i suoi punti di ri-ferimento.
Lo sguardo si eleva nella sacralità delle forme e nelle ferite orizzontali suturate. La carica simbolica di antichi dei primordiali, nell’immobilità rituale, annuncia valori inalienabili.
La bellezza di certe tinte inedite, in dialogo con la ruvida evidenza della materia trova, nel contrasto e nell’opposizione, le vie dell’armonia, del dialogo poetico che sempre rinnova la lettura. Il risultato, astratto e figurativo, è leggibile e oscuro allo stesso tempo; è la conseguenza di un processo costruttivo elaborato, la cui percezione che ne consegue è sempre lenta. Nelle opere si annida una morfologia invisibile che è la parte integrante e più significativa del lavoro.
Essa va pazientemente cercata. Trovarla è emozione pura, canto opaco di luce palpitante.
Settembre 2017
Licio Damiani
Sinfonie cromatiche e icone laiche nella fastosa pittura di Ugo Gangheri
La pittura di Ugo Gangheri come avventura dello spirito,
come esperienza artistica vissuta in connessione dinamica con la realtà
esistenziale, sembra tradurre in immagine le tensioni cromatiche, i contrasti
tonali, l'estrema complicazione e la raffinatezza della dodecafonia. Le opere più recenti assorbono e reinventano in termini
personalissimi la tradizione del cubismo, del dadaismo, del neoplasticismo,
rileggono il fervore fantastico di Kandinskji, restituiscono con un linguaggio
estremamente libero e tutto inventato le astrazioni favolistiche, l'arcano
potere d'incanto, l'apparente ingenuità, le sembianze di pietre preziose,
affioranti nelle opere di Klee. L'immediatezza del gesto pittorico, trattenuta
entro strutture di una geometria dell'immaginario, compone enigmatici paesaggi
interiori, fastosi caleidoscopi di luci, incandescenze e grotte d'ombra.
Si dispiegano equilibri di spezzoni blu, celesti, gialli e
frammenti d’arcobaleni rossi e violetti, “cinture” azzurre raccordano scaglie
arancione, cunei madreperlati, mezzelune inchiodate su cieli di nero-carbone.
S’impennano magiche tastiere di gialli e di carmini, di bruni, di terre di
Siena, d'incandescenze dorate, di opalescenze, di grigi perlati, di verdi
profondi, di cilestri. Allucinazioni agglutinate di elementi indefiniti si
riflettono e rifrangono in moltitudini di specchiere. Bagliori fiammeggiano su
tarsie brune e grigie. Quadrangoli irregolari, elementi trapezoidali, fasce,
rettangoli, cerchi s’incrociano e si compenetrano componendo cromatiche
sinfonie. Il colore, il disegno, le masse plastiche si articolano in un’armonia
di forme pure, opulente. Sono visioni rigorose, antidecorative, espressioni di
un sognante raccoglimento fondato su un intenso afflato contemplativo.
A partire dal 2010
affiora nella pittura una severa umiltà francescana. L’utilizzo della bellezza
fragile della tela grezza di juta, che per certi aspetti apparenta il friulano
Gangheri all’umbro Burri, sembra far risuonare mistiche “voci del silenzio”. Il
sacco di caffè – ha scritto l’artista – da materiale di trasporto, stivato
nelle navi e depositato nelle fabbriche, continua a vivere trasfigurato da
interventi sulla trama, si colora con le tinte dei luoghi ideali di partenza e
di arrivo, diventa visibile negli spazi espositivi. Utilizzando colori a olio
intrisi di acqua ragia e colle resinose ottiene insoliti contrasti di atmosfere
lucide e opache, elaborando articolate, flessibili, lucide litanie. Sui fili
tattili annodati e intessuti d’una materia la cui povertà esalta la delicatezza
lirica, semplici purissime forme elaborano sequele liturgiche intrise d’una
pacata musicalità gregoriana. Riflessi di conopei, i tessuti che velano il
tabernacolo eucaristico, riverberano orfici sentimenti d’attesa. Oltre i
luoghi, oltre i pensieri – afferma l’artista – risiede l’ignoto, dimora il mistero, esplode il sentire,
s’irradia la luce dell’anima.
Quadri come tarsie, tracce, impronte, o come icone laiche sottese da una sacralità interiorizzata,
rebus complessi ricchi d’insondabili precetti, di segrete pulsioni del cuore.
Suggestive reliquie del presente che veicola la purezza attraverso l’impurità,
si propongono quali sudari del mondo contemporaneo attraversati da una sottile
fisicità, torbidi come certi catrami, anche se in grado di abbagliare
all’improvviso per insospettati lucori simili a lame di luce nei mattini
invernali, intrisi a volte come di teneri sentimenti d’umiltà e di
mansuetudine, altre volte carichi d’una implacabilità austera e laconica.
L’artista riproduce quanto nella sua mente vede di eterno e d’immutabile, tenta
di rendere visibile l’invisibile, attraverso la materia aspira a raggiungere
l’immateriale in tensione verso la trascendenza dell’assoluto.
Gangheri è friulano di Povoletto. Ha scritto nel
depliant-catalogo di una sua mostra personale lo storico dell'arte Walter
Schönenberger, già direttore di musei svizzeri, sentimentalmente vicino al
Friuli dove per alcuni anni è vissuto, che egli negli anni giovanili si
concentrava su vedute di Cividale: il ponte sul Natisone (ripreso in un dipinto
del 2004), le case della città, i monti retrostanti, resi con un susseguirsi di
strisce di colore. Nel percorso verso la maturità le tele prendono a
configurarsi quali mappe topografiche di territori ideali, di visioni oniriche,
di luoghi chimerici e fiabeschi. Il linguaggio, come ossessionato dal gusto
della ripetizione, si dispiega in una molteplicità di variazioni d’aspetto
"barbarico", signoreggiato d'accentuazioni timbriche, da energia e da
opulenza di ritmi.
Elementi ricorrenti,
quasi delle sigle, sono le partiture di casette stilizzate disposte in
orizzontale o in verticale entro riquadri compenetrati, fra lampeggiamenti,
misteriose fluorescenze, fluire di linee ondulanti simili a fiumi o a strade.
Il contrapporsi di enigmatici glifi e coppie di congegni fantasmatici dalla
vaga sembianza di aerostati o di sagome meccaniche connota ossessivamente questi territori della
fantasia. Un'allucinazione tradotta in
articolazioni di segni e di tinte sublima, dissolvendoli, gli spunti
descrittivi.
Al paesaggio
oniricamente figurativo l’artista – come si è sopra ricordato - ritorna nella
prima metà degli anni Duemila, innestandolo nel canale principale della sua
produzione, che rilegge la storia della pittura astratta e di una misurata action painting mantenendosi peraltro
attento e fedele alle soggettive pulsioni del cuore. In un dipinto
d’impostazione drammaticamente cinematografica la scultura di un Cristo
medioevale priva di braccia, evocante il mutilo Crocifisso di Gemona eretto a
simbolo del terremoto del 1976, si proietta in primo piano su un pannello
scuro, incastonato sotto un cielo cupo, nella facciata del Duomo cividalese,
gotica nella parte inferiore di Bartolomeo delle Cisterne, progettata con
taglio rinascimentale da Pietro Lombardo in quella superiore.
Il panorama della città longobarda, in Nuovo giorno, emerge come un’immateriale apparizione morganatica,
mentre in Studio si dissolve in vapori
violetti. S’intitola Tempi Nuovi il
monocromo verde pallido di un borgo alpestre dominato da una trasparente catena
alpina. In Verso casa il gruppo di
abitazioni con la chiesetta e il campanile è attraversato diagonalmente dalla
fascia blu scura di un corso d’acqua. Una Finestra
inquadrata da specchiature lignee apre su un villaggio innevato di
montagna.
In parallelo un lento svaporare degli elementi più
marcatamente realistici affiora nella sequenza di dipinti raccolti sotto il
titolo In viaggio. Sagome femminili
formano una processione policroma, calchi di ragazzi siedono su invisibili
panchine affiancati da orme di grandi teste, greggi di pecore come rozzamente
intagliate in listelli lignei sciamano guardate dal simulacro di un pastore,
segni antropomorfi vengono tracciati con cangiante linguaggio cromatico fauve ricco di richiami a calligrammi e
arabeschi orientali echeggianti il decorativismo espressivo di Matisse. Fusione poetica tra sentimento della realtà e
pura invenzione pittorica offre la deliziosa Bambina con lo slittino in vesticciola sfolgorante di candore,
campita su un fondale trapunto d’arazzo intriso
di richiami matissiani, sebbene di tonalità basse e uniformi.
E singolare intensità espressionistica emana dai ritratti
degli anni Ottanta. Straordinaria esasperazione espressionistica ha il volto di
uomo anziano composto con un fitto aggrumarsi di colori macerati, dal titolo Tensione
.Il naso adunco e incurvato nel calvo profilo fiammeggiante di Nonno Meni, “stracciato” su un fondo azzurro, ricorda il becco di un uccello
rapace. In Ricordi si disegnano sul
supporto giallo-verde le sinopie di un ragazzino ripreso frontalmente e di una
maschera carnevalesca. Nell’Angelo il
messaggero celeste tracciato graficamente emerge sulla tunica dorata di Papa
Giovanni XXIII rappresentato con fedeltà fisionomica.
Infine un piccolo gioiello è il Ritratto di giovanetta con
cappello maschile. Si campisce con sorridente espressione leggermente
ironica su un fondale fucsia reso gestualmente. Nella scrittura forte e rotonda
sembra riallacciarsi alla ritrattistica inglese del Sette e Ottocento corrosa
in soluzione novecentista.
Agosto 2014

V
iaggio e cammino.
[…..] Le essenze che io, come architetto e insegnante,
conosco, sono due o tre, e sono la città e l’architettura come madre delle arti
e le loro interazioni, che lì dentro nei quadri di Gangheri si ritrovano.
[…..] Quando ero giovane non avevo soldi per acquistare delle
opere d’arte. Ma è stato Ugo Gangheri che mi ha messo in contatto con una casa
editrice di Lucerna, la quale offriva, a buoni prezzi, ottime riproduzioni di
importanti opere dell’arte moderna. So che la mia scelta di allora è stata una
riproduzione di un’opera di Max Ernst
“La città intera”. L’originale si trova al “Kunsthaus” di Zurigo, ma
ricordo ancora quella riproduzione, appesa alle pareti della mia cameretta. Non
so per quale motivo alcuni quadri di Ugo Gangheri mi riportano a quel dipinto
di Max Ernst. Forse perché si intitola “La città intera” e io nei quadri di Ugo
riconosco una forte urbanità? Le tele di Gangheri sollevano in me delle
domande. L’approfondimento di tali domande mi da un senso di felicità.
[…..]
Passeggiando fra i quadri ed entrando nei dipinti è come se l’artista fosse
sempre al mio fianco, in quanto le tele sono una parte di lui; una parte
sostanziale. Di questo, per la sua presenza, gli sono infinitamente grato.
Innanzitutto
riconosco ai quadri la loro presenza nell’ambiente. Cerco di percepirli nella
loro posizione espositiva, nei loro rapporti che assumono sulle cose e sulle
persone nell’ambiente, nelle relazioni che intrecciano fra di loro, ma anche
nei rapporti che instaurano con i quadri esposti negli altri locali ed infine
nei rapporti che incontrano nello spazio esterno, in Altdorf, nel cantone Uri, per poi ritornare negli
aspetti generati dal mio pensiero. Così mi reco anch’io dentro un viaggio interiore
ed in questo viaggio percepisco sempre di più i quadri stessi. L’ambiente
architettonico tridimensionale, lo spazio del quadro bidimensionale e
l’unidimensionale spazio delle relazioni, si intrecciano in reticoli, in una
struttura, dentro la quale vagabondo attraverso molte strade. Il contenuto del
quadro non mi si rivela semplicemente ed esclusivamente attraverso
l’osservazione dello stesso, piuttosto, se cerco di percepirlo attraverso le
sue molteplici relazioni mi lascia intuire l’estensione delle sue possibilità. Ugo Gangheri, proprio per questo fatto, ha
per me, come fruitore dei quadri, non solo investito il suo tempo, capacità,
dedizione e pazienza per la loro realizzazione, ma ha anche scelto il preciso
posizionamento dei quadri all’interno degli spazi espositivi.
Più
mi avvicino ai quadri, più mi addentro, tanto meglio percepisco anche le
relazioni che si intessono fra gli stessi. Innanzitutto percepisco oggetti
architettonici, case, gruppi di case, città, strade, ponti, fiumi, laghi,
impianti naturali e artificiali; ma anche schemi zoomorfi che possono mutare in
figure antropomorfe. Molte tele sono somiglianti fra loro, come se la stessa
storia, lo stesso contenuto dei fatti fosse accennata nuovamente, ma da un
altro luogo o sopra un territorio diverso. Mi posso però muovere anche su un
altro piano di percezione e così continuare il mio viaggio, mettendo in
relazione fra loro i campi colorati e le figure, alla ricerca di un mio diverso
approfondimento.
E
improvvisamente mi accorgo, che a me viandante, qualche volta, viene dato un
sistema di coordinate cartesiano: è la trama intessuta del sacco che funge da
supporto al dipinto. Però non rimane solo una struttura intrecciata, perché su
questa rete naturale l’artista ha apportato delle incisioni o ha piegato con
effetto plastico delle cuciture presenti sul sacco.
Pino Pilotto
“Ugo Gangheri – Viaggio e cammino”
Mostra presentata negli spazi espositivi del Centro Q4
Altdorf Ost (Svizzera) - 8 maggio 2009
Traduzione dal tedesco di Ugo Gangheri
Dai paesaggi
di Cividale alle tensioni cromatiche.
Tarsie, impronte di vividi pigmenti, l'immediatezza del gesto pittorico trattenuta entro strutture di una geometria dell'immaginario compongono paesaggi interiori di sole, fantasiosi
caleidoscopi di luci, incandescenze e grotte
d'ombra. La mostra di Ugo Gangheri a Palazzo Frangipane di Tarcento sembra tradurre in immagine le tensioni cromatiche, i contrasti tonali, l'estrema complicazione e la raffinatezza della dodecafonia. Quadri di un'allucinazione lirica sublimano, dissolvendoli, gli spunti figurativi.
Gangheri è
friulano di Povoletto. Come scrive nel depliant-catalogo lo storico dell'arte Walter Schönenberger, già direttore dei civici musei di
Lugano, stabilitosi da alcuni anni a Siacco, in precedenza la sua pittura si concentrava su una veduta ricorrente di Cividale: il ponte sul Natisone, le case
della città, i monti retrostanti, resi con un susseguirsi di strisce di colore. Gradualmente la ricerca si è
sganciata dalla resa naturalistica per tradursi in un'articolazione di segni e di tinte, che mantiene
peraltro l’ancoraggio a elementi
narrativi divenuti frasi simboliche.
Le tele esposte a Tarcento potrebbero configurarsi quali mappe topografiche di
territori ideali, di visioni
oniriche, di luoghi chimerici e fiabeschi. II linguaggio, come
ossessionato dal gusto della
ripetizione, si dispiega tuttavia in una molteplicità di variazioni che
conferiscono alle tele una sorta di aspetto "barbarico" signoreggiato d'accentuazioni
timbriche, da energia e da opulenza di ritmi.
Elementi ricorrenti, quasi delle sigle, sono le
partiture di casette stilizzate disposte in orizzontale o in verticale entro riquadri
compenetrati, fra lampeggiamenti, misteriose fluorescenze,fluire
di linee ondulanti simili a fiumi o a strade. II contrapporsi di enigmatici glifi e la coppia di congegni fantasmatici dalla vaga sembianza di aerostati o di sagome meccaniche connota ossessivamente questi territori della fantasia.
Gangheri rilegge la storia della
pittura astratta e dell'action painting. In
alcuni passaggi par evocare le ambigue illusioni, l'arcano potere d'incanto, l'apparente ingenuità, le sembianze di pietre preziose, affioranti nelle opere di Klee. E
tuttavia si mantiene fedele al genius loci, al ricordo di una regione dell'anima. Dai suoi reticoli, dalle
griglie, dalle tastiere magiche di gialli e di violetti, di rossi e di carmini,
di bruni, di terre di Siena, d'incandescenze
dorate, di opalescenze, di grigi perlati, di neri carbone, di verdi
profondi, di blu e di cilestri, si levano
spirituali lampeggiamenti.
Licio Damiani
(Messaggero
Veneto/Album/21/06/2008)
Il viaggio nell’interiorità.
La ricerca di un artista è
essenzialmente un percorso (a ritroso, nel profondo) verso la definizione della
propria identità: ciò che, al di là della specificità dell’artista, è il
cammino che si propone (dovrebbe proporsi) ogni uomo. Ugo Gangheri, da molti
anni artista nel tempo libero, da pochi, dopo il pensionamento, è artista a
tempo pieno e non sfugge a questa regola. La sua produzione può essere divisa
in due grandi raggruppamenti che delineano una sorta di “prima” e di “dopo”:
nel secondo, che coincide con il raggiungimento di una completa dedizione alla
pratica artistica, si assiste al progressivo affermarsi di uno stile, al
delinearsi di un’immagine interiore, di una propria immagine simbolica che è
riconoscimento della propria specificità e capacità di esprimerla e di proporla
senza gravami illustrativi. Ed è su questa produzione matura che s’impernia la
presente mostra.
Nel periodo precedente, un paesaggio
aveva fissato l’attenzione dell’artista diventando un’immagine ricorrente: la
veduta di Cividale, con davanti, in primo piano, il ponte sul Natisone. Il
ponte verticale, al centro del quadro, le case della città, i monti
retrostanti, come un susseguirsi di strisce di colore. Codesta veduta diventa il nocciolo di una ricerca che a poco a poco
si sgancerà da
una resa naturalistica del
soggetto: diventerà canovaccio
per un’immagine interiore sempre più definita.
Dal 2005 in poi, i titoli
diversificati non ci sono più; rimane un impianto, i particolari descrittivi
del dipinto scompaiono. Un approccio a una non figurazione che non sarà mai
tale perché rimarrà comunque ancorata a una realtà percepita. Codesta immagine
è anche una proiezione di una visione interiore (come spiegato prima): una fuga
verso l’orizzonte che indica l’infinito. Da questo momento i quadri saranno
contrassegnati da un’unica definizione: “Il viaggio”. Sull’orizzonte della
composizione appare una teoria di figure incamminate, una dietro l’altra, che
si tramuta in una scansione di segni. Una nuova
immagine archetipa è definita. Un corteo è figure in movimento,
un passare. Ma a volte il fluire ha pause: nell’orizzontale compare un’immagine
statica evocante un’attesa. Codesta immagine ne viene spesso incorniciata dal
resto del dipinto, formando un quadro nel quadro; in tal modo ogni riferimento
naturalistico è cancellato. Nasce lo spazio indefinito della memoria in cui
guizzano figure accennate di giocattoli colorati: “Ricordi fanciulli” (così li
chiama il pittore concedendosi una spregiudicata libertà nei confronti della
lingua!). A livello tecnico, una novità: i ricordi sono immagini accennate con
immediatezza gestuale.
Nella produzione recente (che è
quella che ci riguarda più da vicino), il tema del viaggio” e il
tema dell’”attesa” si ripetono,
si combinano in
numerosi varianti. Questo iter è
discesa nelle profondità di sé stesso e
contemporaneamente impossessamento di una pennellata sempre più fluida e di una
gamma cromatica sempre più riconoscibile. Ugo Gangheri vi ha incontrato il
proprio stile, la propria musica interiore, il proprio contenuto. Accantonata
la descrizione del “viaggio” in una teoria di soggetti incamminati, come in
processione, torna l’immagine del ponte, non più librata verso
l’alto, come nelle precedenti vedute di Cividale, ma ricondotta al
“viaggio” interiore: discesa in sé stesso che è anche ponte verso l’altro. Questo
doppio movimento genera una
figura simbolica doppia che vagamente
ricorda due persone unite da un arco (o da un “ponte”).
Si precisa una sorta di nuovo glifo che è anche la firma dell’artista. Il
viaggio, fino a questa nuova immagine, è stato anche individuazione di sé
stesso, di un proprio discorso prettamente pittorico, con i colori che da
tonali via via si sono fatti timbrici e ora cominciano a brillare puri come
soggetti liberati. In questo modo Ugo Gangheri si è guadagnato il titolo di
pittore di tutto rispetto e di notevole spessore.
Walter Schönenberger
Siacco di
Povoletto, 17 aprile
2008
Ugo Gangheri attraversa il ponte della
conoscenza.
Il tema del viaggio e quello
dell'attesa - aspetti complementari e speculari che si confrontano - sono all’origine
della ricerca più attuale di Ugo Gangheri. L’artista, che
espone a palazzo Frangipane di Tarcento, nella personale "Il viaggio nell’interiorità”,
presenterà
circa trenta opere della sua produzione più recente, incentrate proprio sul concetto dei
viaggio.
Dal 2005, il pluriennale
percorso artistico di Gangheri abbandona il figurativo per addentrarsi
nell'interiorità con l'intento di rendere, attraverso gli strumenti della
pittura, quella visione inconscia che è in ognuno di noi. Ecco allora che, sull'orizzonte della
composizione che si fa preludio
d'infinito, appare una teoria di figure incamminate,
talmente stilizzate che divengono puro colore, quasi puro spirito. Ma la
ricerca di Gangheri prosegue.
Viaggio, cammino, attesa: sono questi i
nuclei forti della sua pittura che si mescolano, si
giustappongono, si combinano in una moltitudine di varianti in cui spicca la forma del
ponte, già oggetto privilegiato della fase figurativa della pittura di Gangheri
come fondamento per raggiungere “l’altro”. Una volta chiaramente identificato il
“sé”, attraverso l’esplorazione dell’arte, dei moti dell'anima e dei
pensieri più profondi, ogni uomo tende all'altro, in
una continua ricerca interiore che getta le basi per il ponte della conoscenza. E
nelle trenta opere in mostra a Tarcento, oltre che costruito, l'artista il ponte l’ha pure attraversato.
(Il Friuli/La cultura
friulana/06/06/2008)
Spazio Corte Quattro, Cividale del Friuli
(…) Ugo Gangheri raccoglie in questa mostra tutte le sensazioni, i colori, le pulsazioni del Friuli, con una partecipazione naturale e particolarissima ai paesaggi di Savorgnano del Torre e del cividalese. Gangheri trasmette alla sua pittura le emozioni del mattino, del meriggio e della sera. La mostra sembra proprio scandire questi momenti della nostra giornata in una terra, quella friulana, che offre una sua intima poesia suscitando emozione e dolcezza.
Una pittura di emozione questa di Gangheri, questo si, una pittura di sentire, che si origina dal percepire gli spazi e i tempi della giornata della vita, sia quella vissuta in Svizzera, sia quella friulana che possiede Cividale e Povoletto come possibilità, come natura e appartenenza.
Un lago svizzero rappresenta la memoria, un ricordo antico nel destino, un bisogno di richiamare sentimenti, un panorama di Savorgnano come di Cividale è invece un’ancora in un presente vivo e palpitante, netto di oggettualità e di richiami concreti.
Mi pare di trovarmi di fronte ad una mostra che scandisce i tempi della vita per quelle tonalità blu e azzurre che richiamano quasi lontana un’alba di luci improvvise. E’ l’alba e tutto si illumina, la luce si depone chiara sulle cose ed il paesaggio si apre ad una nuova dimensione. E poi ecco scandito il tempo del meriggio, con i suoi colori chiari, con i villaggi che si aprono in una sorta di vitalità gentile, dove l’umanità pur non vedendosi si percepisce per la sua vitale presenza, per la sua spiritualità abbozzata.
Ma dopo la vibrante giornata ecco sopraggiungere la sera con le sue tonalità che sembrano negare ciò che è accaduto, che paiono scoprire nuove luci e nuovi colori, che sembrano domare le accensioni solari, la sera che si ripropone nella pace di sfumature indelebili, tracce, memorie, sospiri.
Una pittura che è un racconto e che è parola, che è lettera aperta ad un paesaggio amato che il pittore sembra sempre scorgere sorpreso e attonito per la prima volta, anche se tante volte ha guardato e spesso ha tracciato nella sua tela; “Una sottile poesia dell’esistenza”
Vito Sutto
Ottobre 2004
Spazio Corte Quattro, Cividale del Friuli
(…) L’entusiasmo che ci ha spinti a intessere una collaborazione sincera con l’artista savorgnanese trova la sua ragion d’essere nella predilezione che Gangheri ha per Cividale, nell’amore per gli scorci che la città offre e per l’orizzonte naturale che la circonda e l’abbraccia in una sintesi tra cielo e terra. Nei lavori di Gangheri, infatti, è possibile cogliere, quasi in un mondo ovattato di fiaba, la simbiotica fusione delle individualità cromatiche in cui lo sguardo dell’osservatore trova l’estatica risposta alla personale ricerca di pace.
Negli orizzonti tenui e quasi evanescenti sembra di cogliere la voce suadente dell’infinito: non a caso nella produzione artistica di Gangheri non c’è un prima e un poi, ma si respira, in una rappresentazione dolce e delicata, tenera e ammaliante, un ambiente famigliare in cui ci si può ritirare in personale meditazione alla ricerca di se stessi, troppe volte vittime di un mondo senz’anima.
Giuseppe Schiff
Ottobre 2004
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