Cordenons Centro Culturale Aldo Moro, 13 dicembre 2025
Note critiche di Oscar Romanello
Con l' opera di Ugo Gangheri, esposta in questa mostra
si suggella il pensiero di una ricerca d'arte che ci parla convincentemente
dell'uomo contemporaneo, delle sue emozioni, dei suoi destini.
Ugo
agisce sulla tela con abili tecniche elaborate personalmente, direi in chiave
materica, considerando la pluralità dei materiali utilizzati, e ci rimandano
alla memoria grandi artisti del '900, da Burri a Fontana. Seppur Ugo raggiunga
un' astrazione rispetto a questi maestri meno virulenta e gestuale, ci offre
una più meditata narrazione pittorica fatta di costruzioni spaziali che si
avvicinano anche alle percezioni del maestro (svizzero) Paul Klee.
Nelle
opere di maggiori dimensioni (parietali) la solennità compositiva di U. G. si
traduce in soluzioni astratte magistrali, equilibrando spazi e campiture
cromatiche di forte scuola nella classicita' del nostro Rinascimento.
Cordenons Centro Culturale Aldo Moro, 13 dicembre 2025
Centro Culturale Aldo Moro - Cordenons/PN
Sulle tracce di Penelope...
Nella parabola artistica di Ugo Gangheri è possibile seguire
in qualche modo un percorso più generale che riguarda l'arte contemporanea,
ovvero il passaggio lento e meditato dal figurativo all'astratto, e poi al
materico. Il lungo lavoro che è partito dagli anni '80 ed è proseguito per più
di vent'anni attorno al tema del paesaggio e della figura resta fondamentale
perché ha creato le premesse per una ricerca che va oltre: è una scuola potente
in termini di rigore, equilibro delle masse, percezione dei colori, ma
l'artista, come tanti della sua generazione, respira aria diversa, sente che è
tempo di confrontarsi con il mondo in altro modo. La riproduzione del reale,
ancorché rivissuta sull'onda dell'emozione, trasfigurata attraverso una
rielaborazione profonda di linee e masse, si scontra con un mondo sempre più
complesso, sfuggente, che non si lascia più racchiudere nei limiti di quello
che si percepisce ma sembra nascondere sempre livelli più profondi, intenzioni
nascoste. Si dice che il figurativo è stato cancellato di fatto dall'avvento
della fotografia ma io credo che il mondo in sé sia mutato: rappresentare il paesaggio sulla tela
significava di fatto credere nella possibilità di leggere il mondo per come si
presentava, partendo dal visibile. Era un atto di fede, a pensarci bene: il
mondo è quello che appare, si può lavorarci sopra, sottolineare una linea, un
colore ma in fondo la realtà stessa ti dà le chiavi per decodificarla. Negli
ultimi decenni questa illusione è finita: l'esplosione della tecnologia, della
finanza, del panorama geopolitico hanno cancellato questa illusione: quello che
vediamo è la pelle di un mondo che non svela i suoi segreti, che si nasconde. A
tutti noi e all'artista ancora di più. Ecco, quando noi cerchiamo di cogliere
la materia, di farla nostra, ci esplode davanti in colori, emozioni, ma non
resta, non dura, finisce per assomigliare terribilmente all'illusione, ci
lascia in superficie e non ci dà risposte. La scienza ci dice che noi vediamo una
cosa ma la realtà certamente è altro perché cogliamo solo una gamma del
visibile: l'essenza delle cose, ammesso che la si sfiori, precipita comunque
nel crivello del nostro spazio emozionale, ahimè con buchi così larghi sullo
sfondo da lasciar scivolare via anche il poco che delle cose resterebbe. Lascia
macchie, colori, tracce (che poi è il titolo di una serie di lavori di questo
artista) ma non dà risposte. Rinunciare, al figurativo, dunque, a malincuore
magari, è un passo obbligato: occorre rinunciare all'illusione di riprodurre,
ma non si può rinunciare al bisogno di cercare segni, tracce, vibrazioni delle
cose.
Il mondo ha segreti, ingiustizie, regole, drammi che non si
vedono ma che l'artista è chiamato a denunciare con un linguaggio che non può
essere più quello lineare, in fondo semplice e descrittivo. L'astrazione è in qualche
modo una lotta della ragione che attraverso linee, campiture, sfida il mondo a
rivelarsi, a rispondere alle domande degli uomini. Le stesse dichiarazioni di
Ugo Gangheri ci rivelano il senso di questa lotta, un tentativo inesausto di
cercare risposte al di sotto della pelle delle cose: lui stesso ci rivela come
temi fondanti del suo lavoro le Tracce, come ricerca della sacralità
dell'esistenza, i Muri, ovvero le barriere che si creano nella società e
nell'animo e l'Umanità, una riflessione
sull'atteggiamento evolutivo del genere umano, tre linee di ricerca che
diventeranno veri e propri cicli tematici. Si tratta come si vede di argomenti
che scavalcano d'un balzo ogni ricerca figurativa e, come per un richiamo
etico, ricercano linguaggi diversi. Ancora un salto però ci riserva la ricerca
di Gangheri, ovvero la vocazione materica del suo percorso più recente.
Le esperienze materiche di fatto occupano buona parte
dell'arte del 900 da Burri, con i sacchi, ai tagli di Fontana, a tanta arte
povera. A me pare letteralmente un "ritorno alla materia", dopo
l'ubriacatura astratta, quasi un tentativo si riallacciare dei fili per vie
diverse, affettive, compassionevoli quasi. Sì, è vero, il mondo non si rivela,
non scopre le sue carte ma abs-trahere, prescindere dal mondo, non risolve il
problema. Forse, pensano questi artisti, e Ugo Gangheri con loro, è meglio
condividere la consistenza delle cose, affiancare la materia piuttosto che
cercare ossessivamente una soluzione razionale. Recuperare la dimensione
concreta, scendere al livello degli oggetti per cercare un senso nella
condivisione. E allora ecco che dal 2006 Gangheri si serve per i suoi lavori di
sacchi grezzi di juta, ma anche di inserti metallici arrugginiti, di cuoio,
legno. I colori sono sostituiti da materiali che si portano dietro una storia,
una profondità di informazioni derivanti dalla loro consistenza fisica e dalla
loro funzione precedente (lastre di ferro, carta, scarti industriali), e la
dialettica di linee e colori è sostituita o integrata dal gioco dei contrasti
tra materie diverse. I sacchi in fondo alludono alle cose, sono fatti per
contenere cose, per catturarle, e già questa è una bella metafora: catturare le
cose, metterle nel sacco verrebbe da dire scherzosamente. Ma non c'è alcuna
semplificazione in questo processo: qui si mantiene un ordine, la volontà di
uno schema quasi fosse il reticolo a darci coordinate. I fili di ferro
incastrati nel materiale morbido del supporto delimitano spazi, creano un
ordine. Lo si vede soprattutto nelle installazioni, steli ritte in cui c'è
tutto lo sforzo di creare linee di tensione, sostegni rigidi che reggano, diano
senso... una geometrizzazione del mondo che diventi epigrafe, parola
definitiva. Ma quale? Per chi? In che linguaggio? Vi è, nel reimpiego dei
materiali, vi è sempre una sorta di straniamento: le cose hanno perso la loro
funzione, sono dislocate, fuori posto, estranee al mondo. I numeri scritti sembrano
spiegare, catalogare, ripropongono didascalie che sono però avulse dal
contesto, parlano di caffè, merci ormai spedite, consumate. Come si vede vi è
lo sforzo di ripercorrere e far proprio il percorso delle cose, creare una
connessione fraterna fra loro e la nostra avventura umana (un po' come aveva
immaginato Burri durante la sua prigionia americana) ma il risultato è
piuttosto un disorientamento: le cose non ci rivelano segreti rassicuranti ma
semmai avviene il contrario, finiscono per condividere anche loro il nostro
smarrimento.
Il sacco dunque, pensato per catturare, pescare le cose e il
loro significato come fosse una rete, non contiene più, rivela tristemente il
fallimento della sua funzione. Ma l'avventura artistica non finisce perché nel
2010 Ugo Gangheri inizia “a togliere i fili”, un lavoro certosino che ritaglia
nella tessitura fitta e regolare delle striature nuove, crea varchi, buchi,
passaggi. Un lavoro tutto suo, una precisa cifra stilistica. Sfilatura,
qualcuno l'ha chiamata, e potrebbe passare inosservata, tutt'al più un ulteriore
strumento della composizione materica, non fosse per il suo forte valore
simbolico. Viene in mente innanzitutto Penelope, quella che disfaceva la tela
di notte per ingannare i Proci, per ingannare ogni domanda procrastinando il
tempo della risposta. Azione di altissimo valore simbolico proprio perché contraria
a ogni buon senso, a ogni normalità. È come se Penelope si rifiutasse di
fissare una sequenza precisa sul lenzuolo funebre di Laerte, di definire il
senso di una storia perché fino al ritorno di Ulisse nessuna risposta ha senso,
nulla di certo si può scrivere.
Ma la tecnica particolare della sfilatura ci racconta anche
altro: il filo della memoria che viene meno, più scendiamo in profondità, meno
rimane nel ricordo. Le trame cedono, le maglie si allargano. E allora ecco che
l'artista sceglie di fare l'artista fino in fondo, di gestirlo lui questo
sfaldarsi delle certezze, di aprirli lui i varchi, di lasciar fuggire le cose.
Perché forse l'ultimo grado della scoperta è questo: la libertà, la rinuncia a
tenere, a imprigionare, a capire, e la gioia liberatoria di lasciar andare
Rinunciare alle risposte e godere piuttosto il fluire libero degli eventi, come
il gioioso fuggire dei pesci nel mare aperto quando la rete non tiene più.
Gangheri ci insegna dunque che le cose forse entrano dentro
di noi ma il sacco della nostra anima e della nostra percezione è consumato, ha
il fondo sfrangiato e l'essenza non resta, resta il ricordo, l'emozione, finalmente,
questa sì, roba nostra che ci lascia colorati, che ci lascia qualche traccia,
anche se forse è tutt'altro dalla verità delle cose.
Palazzo Frangipane Tolmezzo Roberto Zoratto
Collettiva 9 febbraio - 23 marzo 2025
Ugo Gangheri ha sviluppato una vera e propria maestria nell’elaborare e comporre i suoi materiali preferiti, come la tela di sacco e le lamiere corrose dal tempo, con la stessa coralità di colori e forme che ci ricordano quasi un ancestrale graffito rupestre lasciato in eredità all’uomo all’alba di una nuova civiltà. Sembrano tracce di un mondo “altro”, di una diversa dimensione, quella della fenomenologia dello spirito, del sacro, percorso che ogni individuo dovrebbe compiere, partendo dalla propria coscienza, per identificare le manifestazioni attraverso le quali lo spirito si innalza dalle forme più semplici di conoscenza a quelle più generali fino al sapere assoluto. È di questo che l’uomo avrebbe bisogno, di cui avvertiamo la necessità della presenza e della vocazione anche se spesso non osiamo più inoltrarci ed abbandonarci ad esso per mancanza di coraggio, per paura di ciò che vi potremmo trovare e di non saper più riemergere alle amate e abusate comodità della vita.
Galleria d’arte “ERASMO” - Valvasone
Presentazione di Giulio Boccali
“S I N C R E T I
S M O”
30 novembre –
22 dicembre 2024
“La piccola città di Verrières può passare per uno dei borghi più graziosi della Franca-Contea. Le sue case bianche dai tetti aguzzi e con le tegole rosse… Il Doubs scorre a poche centinaia di piedi al di sotto delle sue fortificazioni…”. È l’inizio de “Il rosso e il nero”, l’immortale capolavoro letterario di Henry Beyle, in arte Stendhal. Con un piccolo gioco di prestigio, che spero Stendhal avvalli, si può sostituire il nome di Verrières con quello di Valvasone, Franca-Contea con Friuli occidentale e, naturalmente, Doubs con Tagliamento e … il gioco è fatto. Ecco una verosimigliante, plausibile?, descrizione paesaggistica-territoriale di uno dei “borghi più belli d’Italia”: Valvasone.
E
in questo angolo di Friuli, ricco di fascino e di storia, grazie a una bella
idea – una bella intuizione – di Felice Gri in rappresentanza di “Felice Arte”,
il 30 novembre 2024 si è tenuta l’inaugurazione di un’interessantissima mostra
d’arte che ha visto protagonisti tre rinomati artisti friulani: Nilo Cabai, Ugo
Gangheri e Roberto Milan.
Piccola
premessa. Mentre camminavo sulle strade di ciottoli, che avevano il potere, la
suggestione, di riportarmi indietro nel tempo allo splendore di un’epoca
passata, per raggiungere la sede che ospitava la mostra mi sono chiesto, tra me
e me, che cosa mi aspetto, quali sono le mie aspettative quando mi reco a
un’esposizione artistica e, più in generale, quando incontro l’arte? Sul
momento, devo ammetterlo, non mi sono dato una risposta ma…
Il
titolo della mostra è “Sincretismo”. E in questo specifico, in questo evento,
per sincretismo si deve intendere l’incontro di stili, oso affermare di
concezioni, che generano mescolanze, interazioni e contaminazioni artistiche.
Sincretismo che qui diventa sinonimo, assume il valore, di sperimentazione, di
materialità, di invenzione. E nelle opere di Cabai, Gangheri e Milan, la
“contaminazione”, il metissage di diverse visioni autoriali che conduce a un
punto d’incontro condiviso, è visibile, quasi tangibile.
Alcune
osservazioni sulla struttura, sulle strutture, dei quadri e delle sculture
presenti in questa mostra possono essere utili per meglio calarci, per
avvicinarci, all’arte di questi tre autori.
Nei
quadri di Nilo Cabai, frutto di un pensiero e di una concezione solidissima,
irrompono i colori, i “suoi” colori, beige, azzurri, blu di diverse gradazioni
e tonalità, che sembrano “dialogare” tra di loro in modo del tutto naturale.
L’amore per il segno, contraddistinto da linee finissime che separano le sue
“vele”, regalano all’osservatore l’idea del dinamismo, l’illusione del
movimento. Ugo Gangheri usa materiali diversi, sacchi di caffè, ferro, con senso
della misura e sapienza in cui, poi, subentra la sua pittura astratta fatta di
figure e colori che si intersecano fra loro e creano una misteriosa interazione
tra l’artista e il pubblico.
Anche
per le opere di Roberto Milan la cifra distintiva è l’uso di materiali diversi.
Legno, metalli e vetri di murano si incontrano in un’alchimia perfetta. Le sue
sculture creano un rapporto costante tra oggetto artistico e spazio circostante
alla ricerca di un equilibrio possibile.
“Universi
interiori”. È il titolo di un ciclo di opere di Ugo Gangheri che si presta,
mirabilmente, per approfondire qualcosa che, a mio parere, ha a che fare con
questa esposizione. Universi interiori, degli artisti e, forse, di riflesso,
anche nostri.
Le
“vele” di Cabai ci riportano al tempo passato dell’artista, alla giovinezza
trascorsa a Trieste, al mare, al vento, alla sua passione, mai sopita, per la
classicità e ci introducono a un’interiorità, a un’arte, alla perenne e
inestinguibile ricerca di armonia.
Le
opere di Gangheri sono un punto d’incontro tra astrazione e sperimentalismo. I
suoi cicli artistici che scandiscono un tempo solo suo, esprimono la volontà di
andare oltre i muri del conformismo, artistico e non, e tendono a qualcosa di
poetico.
Milan
con i suoi “totem”, con i suoi studi sui materiali e sulla “verticalità”,
compie una ricerca, personalissima, volta a esplorare (e scoprire) il suo universo
interiore e il mondo che lo circonda.
Invenzione,
dal latino inventio-onis, “capacità di
trovare” è un gran bel sostantivo. Le opere, appese ai muri, di Cabai e
Gangheri e le sculture di Milan che si ergono, nella sala, tra la folla degli
osservatori, sono ricche di invenzione. Ed è, forse, questa “capacità di
trovare” il fil rouge che contraddistingue l’arte di questi tre autori. Arte
caratterizzata da studio, ricerca e da “visioni” frutto di un pensiero
innovativo e, soprattutto, libero.
All’inizio
di questo scritto mi sono posto una domanda: che cosa mi aspetto quando mi reco
a una mostra d’arte? Ebbene, non ho ancora una risposta assoluta. Il rimpianto
Luciano De Crescenzo, scrittore e filosofo partenopeo, ci ha insegnato a
dubitare di chi ha risposte assolute, di chi ha “la verità in tasca”, posso
affermare, però, che da un’esposizione artistica mi aspetto di “vedere qualcosa
di nuovo”, qualcosa che i miei occhi non hanno ancora visto, qualcosa che sia
in grado di appassionarmi e di sorprendermi.
E
a Valvasone, in un’umida serata autunnale, all’interno di una sala impreziosita
dalle opere e dalle sculture di Nilo Cabai, Ugo Gangheri e Roberto Milan, ho
avvertito che si può interrogarsi, si può emozionarsi e, ancora una volta,
sorprendersi.
Ugo Gangheri - Incedere di trame
Donatella Nonino
Osservando le opere di Ugo Gangheri si scopre il materiale di base con cui esse sono composte: sacchi usati per il trasporto del caffè. Nelle crettature che soggiogano la materia si trovano compromessi con il colore, con il ritmo geometrico, generosamente armonico, in una semantica interpretazione del viaggio interiore attraverso lo scandire lento del tempo che rappresentano.
La sua opera diviene linguaggio inconsueto, autonomo e restituisce una forma capace di trasferirsi dall’opera visiva al nostro percepito. Ci troviamo così ad inseguire il nostro mistero intimo e capaci, finalmente, di fermarci, di cedere alla lentezza del procedere, quasi a ritrovare il misticismo insito in noi, chiuso e racchiuso in strade abbuiate.
L’incontro di materiali così diversi come carta e tela di sacco con inclusioni di colore e ferro consunto dal tempo, si compenetrano con rarefatto equilibrio, ristabilendo un ordine delle cose che egli ci propone. La nostra osservazione diventa così esercizio meditativo, un privilegio di percezione, privo di ogni nostalgia del passato e come ordine delle cose per ritrovare la via.
Nel ciclo tematico “Abbracci” abbiamo la sensazione che la fusione delle trame che cede al passaggio del colore, rappresenti l’azione che dovrebbe appartenerci per poter attraversare, oltre l’immagine, un nuovo varco, un nuovo orizzonte. Ci permette inoltre di transitare attraverso la creazione e percepire come egli abbracci il suo sentire, mentre i pensieri trascendono, trasformandosi in azioni artistiche dove le mani, accostando fragilità e durezza sulla superficie della trama, assumono quel potere di mutare le cose.
“Il cielo che è dentro e fuori di noi contagia il nostro incedere” afferma Gangheri. Nelle sue tele “il cielo” si trasforma in un calice, dal quale l’Uomo può nutrirsi. Questo grande valore della vita, il rispetto di essa, emerge nel ciclo “Umanità”. In questo ciclo possiamo scoprire quanta fiducia l’artista riponga in tutti gli esseri senzienti: la strada segnata, illuminata, la si può percorrere in diversi modi.
La scelta di un materiale povero e ingiustamente definito fragile, come può essere il sacco di juta che porta il caffè durante il suo lungo viaggio attraverso terra e mare, è di per sé metafora più che calzante dell’essere umano.
Nel ciclo “Tracce” emergono le capacità insite in ognuno di noi di superare confini e ostacoli materiali e psichici e ci pone la domanda di quanto siamo consapevoli nell’essere padroni del tempo e di quanto, invece, sia il tempo a gestire la nostra esistenza.
Gangheri nella sua ricerca quarantennale, si è appropriato di un proprio linguaggio pittorico, di una propria cifra artistica. I segni, i materiali, le trame, i titoli, sono parti che compongono la poesia dell’opera e sono alla base di un approfondimento evolutivo sull’Uomo. Il suo lavoro è un sedimentare attraverso il tempo delle esperienze.
Negli anni sessanta Gangheri, ancora ragazzo, oltre ad ammirare i quadri del papà è affascinato dalla pittura di Van Gogh per il segno, i colori, la spontaneità. Nel tempo egli, ormai artista maturo per anagrafica e professionalità, evolve attraverso la conoscenza e l’ispirazione di tanti altri Maestri.
Non è una musica quella che lo accompagna nel centellinare dello svolgersi del suo lavoro, ma sono i suoni che l’umanità restituisce e segna nell’aria, nell’etere, pregna del segno dell’uomo e vissuta dentro e intorno a se stesso. Egli lavora nel suo studio immerso nella campagna friulana, dove i suoni che entrano dall’esterno gli offrono la percezione di essere parte integrante della natura e gli restituiscono la bellezza e il mistero della vita, quel mistero che ritroviamo affiorare con forza nelle sue tele.
Dal 2006 Gangheri utilizza per i suoi lavori sacchi grezzi di juta. Nel 2010 inizia “a togliere i fili”, una litania introspettiva, un rituale, un mantra che gli permette di inseguire il mistero. Il materiale consunto dei sacchi da caffè, carichi di storia e di viaggio, di fragilità e durevolezza sono “Tracce” che conducono alla ricerca da dove veniamo e cosa lasciamo dopo di noi. Il parallelo delle risposte si può trovare nella tangibilità dell’archeologia, che ci permette di scoprire le civiltà che ci hanno preceduto, facendoci sentire parte di un unico disegno e riconoscendo che anche quel percorso millenario è scritto dentro di noi.
Marzo 2023
Vitalità imprigionata.
Donatella Avanzo
Scrivere di Ugo Gangheri non è cosa semplice. Egli opera, in maniera sorprendente, sulla vicinanza di materia e materia, sulla variazione di superficie, sulla sostituzione di un colore con componenti di colore simile ma molto più ricchi di informazioni (lastre di ferro, carta, scarti industriali), derivanti dalla loro consistenza fisica, dal loro uso precedente e dal loro eventuale vissuto; infine, opera mediante l’origine dei contrasti tra materie diverse e attraverso un istintivo impianto geometrico dell’immagine da ottenere.
Ciò che è più importante nell’analisi dell’artista è il raggiungimento della forma e dello spazio mediante un rapporto di raffinato equilibrio tra i diversi elementi materici che si concretizzano in ogni sua opera.
Attraverso la detessitura di vecchi sacchi di caffè crea la forma geometrica da cui ha inizio la costruzione del suo atto artistico, come per esempio in “Vitalità imprigionata” dove il ferro arrugginito fronteggia lo sguardo dell’osservatore con fierezza e precisione.
Le sue opere sono venate da una grande spiritualità, con sviluppi formali che negli anni lo avvicinano a certe atmosfere dell’Arte Povera.
Le lame metalliche che paiono incidere e squarciare la scomputata trama della iuta attivano il suo linguaggio pittorico e ci spingono a vederci riflessi nelle nostre inevitabili fragilità.
Fragilità, ma anche inesauribile energia vitale rappresentata dai bagliori dell’incorruttibilità dell’oro presente anche nelle essenziali sculture esposte per la prima volta in questa mostra.
Il ricorso a entità organiche e inorganiche trasforma il suo linguaggio in un’esperienza corporea intesa come trasmissione sensoriale.
La vita pittorica di Ugo Gangheri è stata influenzata da artisti quali Burri, Fontana, Tapies, ma soprattutto da suo padre, anch’egli pittore e appassionato d’arte, che ha saputo trasferire in lui il dono della sensibilità che sta nella capacità di mettere in movimento e in discussione la forma.
Il suo interesse è quello di studiare gli aspetti materici dell’arte e le sperimentazioni che conducono l’artista e lo spettatore oltre la superficie del quadro.
In tutta la sua ricerca egli svilupperà anche una relazione del tutto personale con la cultura e l’instabilità sociale della storia attuale che porterà alla realizzazione di cicli tematici:
Tracce, in cui ricerca la sacralità dell’esistenza;
Muri, dove esplora le barriere che si creano nella società e nell’animo di ognuno di noi;
Umanità, con la sua riflessione sull’atteggiamento evolutivo dell’Uomo.
La ricerca costante di materiali che parlino della fragilità dell’essere umano viene riconosciuta dall’artista nelle lastre di ferro corrose che diventano simboli di quel male che è dentro di noi, che ci devasta e indebolisce, ma che può essere compreso e trasformato in energica creatività per concretizzare rilevanti opere artistiche.
Nei suoi lavori è sempre presente un gioco di metamorfosi e contrasti quali, per esempio, carta e ferro: leggerezza e pesantezza si incontrano in un quieto dialogo che tende ad armonizzare gli elementi. Il contrasto serve da cortocircuito visivo che spinge l’osservatore a fermarsi per comprendere il significato di quella vicinanza.
Ugo Gangheri, attraverso il dialogo tra materia organica e inorganica, è espressione di quella cultura e di quella storia che si oppone alla distruzione e all’oblio di questa nostra società detta Umanità.
20 marzo 2022
Scrivere l’altrove. Andrea Gangheri Contemplazione di un quadro. Una nave cargo con un carico in procinto di finire in acqua, o un palazzo con terrazze-ponte che corrono verso l'infinito? Faccio un passo avanti per avvicinarmi al dipinto davanti a me. Scopro trame di tessuto grezzo, scritte stampigliate "coffee", Italia-Italy" e poi tutto a destra in rosso "CHERRY", "41”, e poi in alto una cicatrice orizzontale che percorre tutta la superficie dipinta da parte a parte. Ritorno un passo indietro per riempirmi gli occhi di questi colori bruciati, marroni, grigi, rosati, che graffiano l'iride e lasciano poche isole di non-colore dove l'occhio si può riposare e sentirsi al sicuro. Mi giro di spalle, ripasso mentalmente la tela, cercando di andare oltre questo primo strato di forme e colori. Sento il profumo di juta di questo grande arazzo, sento i miei polpastrelli ancora segnati dalla sua superficie ruvida, quasi a richiamare la mia attenzione al qui e ora, a tornare con i piedi per terra e a smettere di fantasticare. Ricordo una macchia di colore azzurro che si stacca dalla quasi monocromia di tutta la superficie. Sarà questo piccolo elemento dentro a una forma che ricorda un calice a rappresentare la "Sacralità”, che l’artista ha scelto come titolo dell’opera? O saranno invece tutte queste sensazioni ed emozioni, provate davanti a questo quadro, che mi restituiscono la "Sacralità" della vita?
Giugno 2021
Fabio Merotto
Siamo abituati ad osservare che in una tela dipinta diventa spesso principale il soggetto rappresentato e i colori stesi, seppur con qualsiasi tecnica, sul supporto. In questi lavori di Ugo Gangheri è proprio il supporto ad avere senso nella sua pittura. Tra l'altro si sono invertiti di ruolo il mezzo e il fine. Se la tela, per necessità, è il mezzo e la pittura è il fine, con il suo fare Ugo Gangheri ha ribaltato la consuetudine, ed è proprio questa azione che ci pone delle riflessioni.
Nei suoi sacchi, quindi, la pittura è il mezzo e la tela è il fine, il risultato e l'obiettivo del suo atto creativo.
Quindi la sua pittura si ribalta; pare che la sua non sia una tecnica mista su sacco, bensì un sacco su tecnica mista. Gli esiti della sua pittura sono stati rivoltati come un tessuto in cui le cuciture sono messe in evidenza e non appaiono scomode.
Le cuciture sono linee che dividono il sacco in più piani pittorici che dialogano tra loro, senza che uno prevalga sull'altro.
I sacchi sembrano imbevuti di colore e l'autore fa emergere le diverse tramature che fanno rima con le campiture di colore.
Nei suoi sacchi la materia è supporto.
La ruvidezza della materia è sinonimo di sacrificio, fatica e sudore per il lavoro nelle piantagioni di caffè, come si legge nelle geometrie che l'autore pone in evidenza.
Un'opera non solo va osservata ma anche letta per fare nostra un'esperienza personale.
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Settembre 2017
Sinfonie cromatiche e icone laiche nella fastosa pittura di Ugo Gangheri

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