cenni critici


Cordenons Centro Culturale Aldo Moro, 13 dicembre 2025

Note critiche di Oscar Romanello

Con l' opera di Ugo Gangheri, esposta in questa mostra si suggella il pensiero di una ricerca d'arte che ci parla convincentemente dell'uomo contemporaneo, delle sue emozioni, dei suoi destini.
Ugo agisce sulla tela con abili tecniche elaborate personalmente, direi in chiave materica, considerando la pluralità dei materiali utilizzati, e ci rimandano alla memoria grandi artisti del '900, da Burri a Fontana. Seppur Ugo raggiunga un' astrazione rispetto a questi maestri meno virulenta e gestuale, ci offre una più meditata narrazione pittorica fatta di costruzioni spaziali che si avvicinano anche alle percezioni del maestro (svizzero) Paul Klee.
Nelle opere di maggiori dimensioni (parietali) la solennità compositiva di U. G. si traduce in soluzioni astratte magistrali, equilibrando spazi e campiture cromatiche di forte scuola nella classicita' del nostro Rinascimento.

 


 

Cordenons Centro Culturale Aldo Moro, 13 dicembre 2025




Centro Culturale Aldo Moro - Cordenons/PN 

Mostra personale 13 dIcembre 2025 - 3 gennaio 2026

Presentazione di PAOLO VENTI

Sulle tracce di Penelope...

Nella parabola artistica di Ugo Gangheri è possibile seguire in qualche modo un percorso più generale che riguarda l'arte contemporanea, ovvero il passaggio lento e meditato dal figurativo all'astratto, e poi al materico. Il lungo lavoro che è partito dagli anni '80 ed è proseguito per più di vent'anni attorno al tema del paesaggio e della figura resta fondamentale perché ha creato le premesse per una ricerca che va oltre: è una scuola potente in termini di rigore, equilibro delle masse, percezione dei colori, ma l'artista, come tanti della sua generazione, respira aria diversa, sente che è tempo di confrontarsi con il mondo in altro modo. La riproduzione del reale, ancorché rivissuta sull'onda dell'emozione, trasfigurata attraverso una rielaborazione profonda di linee e masse, si scontra con un mondo sempre più complesso, sfuggente, che non si lascia più racchiudere nei limiti di quello che si percepisce ma sembra nascondere sempre livelli più profondi, intenzioni nascoste. Si dice che il figurativo è stato cancellato di fatto dall'avvento della fotografia ma io credo che il mondo in sé sia mutato:  rappresentare il paesaggio sulla tela significava di fatto credere nella possibilità di leggere il mondo per come si presentava, partendo dal visibile. Era un atto di fede, a pensarci bene: il mondo è quello che appare, si può lavorarci sopra, sottolineare una linea, un colore ma in fondo la realtà stessa ti dà le chiavi per decodificarla. Negli ultimi decenni questa illusione è finita: l'esplosione della tecnologia, della finanza, del panorama geopolitico hanno cancellato questa illusione: quello che vediamo è la pelle di un mondo che non svela i suoi segreti, che si nasconde. A tutti noi e all'artista ancora di più. Ecco, quando noi cerchiamo di cogliere la materia, di farla nostra, ci esplode davanti in colori, emozioni, ma non resta, non dura, finisce per assomigliare terribilmente all'illusione, ci lascia in superficie e non ci dà risposte. La scienza ci dice che noi vediamo una cosa ma la realtà certamente è altro perché cogliamo solo una gamma del visibile: l'essenza delle cose, ammesso che la si sfiori, precipita comunque nel crivello del nostro spazio emozionale, ahimè con buchi così larghi sullo sfondo da lasciar scivolare via anche il poco che delle cose resterebbe. Lascia macchie, colori, tracce (che poi è il titolo di una serie di lavori di questo artista) ma non dà risposte. Rinunciare, al figurativo, dunque, a malincuore magari, è un passo obbligato: occorre rinunciare all'illusione di riprodurre, ma non si può rinunciare al bisogno di cercare segni, tracce, vibrazioni delle cose.

Il mondo ha segreti, ingiustizie, regole, drammi che non si vedono ma che l'artista è chiamato a denunciare con un linguaggio che non può essere più quello lineare, in fondo semplice e descrittivo. L'astrazione è in qualche modo una lotta della ragione che attraverso linee, campiture, sfida il mondo a rivelarsi, a rispondere alle domande degli uomini. Le stesse dichiarazioni di Ugo Gangheri ci rivelano il senso di questa lotta, un tentativo inesausto di cercare risposte al di sotto della pelle delle cose: lui stesso ci rivela come temi fondanti del suo lavoro le Tracce, come ricerca della sacralità dell'esistenza, i Muri, ovvero le barriere che si creano nella società e nell'animo  e l'Umanità, una riflessione sull'atteggiamento evolutivo del genere umano, tre linee di ricerca che diventeranno veri e propri cicli tematici. Si tratta come si vede di argomenti che scavalcano d'un balzo ogni ricerca figurativa e, come per un richiamo etico, ricercano linguaggi diversi. Ancora un salto però ci riserva la ricerca di Gangheri, ovvero la vocazione materica del suo percorso più recente.

Le esperienze materiche di fatto occupano buona parte dell'arte del 900 da Burri, con i sacchi, ai tagli di Fontana, a tanta arte povera. A me pare letteralmente un "ritorno alla materia", dopo l'ubriacatura astratta, quasi un tentativo si riallacciare dei fili per vie diverse, affettive, compassionevoli quasi. Sì, è vero, il mondo non si rivela, non scopre le sue carte ma abs-trahere, prescindere dal mondo, non risolve il problema. Forse, pensano questi artisti, e Ugo Gangheri con loro, è meglio condividere la consistenza delle cose, affiancare la materia piuttosto che cercare ossessivamente una soluzione razionale. Recuperare la dimensione concreta, scendere al livello degli oggetti per cercare un senso nella condivisione. E allora ecco che dal 2006 Gangheri si serve per i suoi lavori di sacchi grezzi di juta, ma anche di inserti metallici arrugginiti, di cuoio, legno. I colori sono sostituiti da materiali che si portano dietro una storia, una profondità di informazioni derivanti dalla loro consistenza fisica e dalla loro funzione precedente (lastre di ferro, carta, scarti industriali), e la dialettica di linee e colori è sostituita o integrata dal gioco dei contrasti tra materie diverse. I sacchi in fondo alludono alle cose, sono fatti per contenere cose, per catturarle, e già questa è una bella metafora: catturare le cose, metterle nel sacco verrebbe da dire scherzosamente. Ma non c'è alcuna semplificazione in questo processo: qui si mantiene un ordine, la volontà di uno schema quasi fosse il reticolo a darci coordinate. I fili di ferro incastrati nel materiale morbido del supporto delimitano spazi, creano un ordine. Lo si vede soprattutto nelle installazioni, steli ritte in cui c'è tutto lo sforzo di creare linee di tensione, sostegni rigidi che reggano, diano senso... una geometrizzazione del mondo che diventi epigrafe, parola definitiva. Ma quale? Per chi? In che linguaggio? Vi è, nel reimpiego dei materiali, vi è sempre una sorta di straniamento: le cose hanno perso la loro funzione, sono dislocate, fuori posto, estranee al mondo. I numeri scritti sembrano spiegare, catalogare, ripropongono didascalie che sono però avulse dal contesto, parlano di caffè, merci ormai spedite, consumate. Come si vede vi è lo sforzo di ripercorrere e far proprio il percorso delle cose, creare una connessione fraterna fra loro e la nostra avventura umana (un po' come aveva immaginato Burri durante la sua prigionia americana) ma il risultato è piuttosto un disorientamento: le cose non ci rivelano segreti rassicuranti ma semmai avviene il contrario, finiscono per condividere anche loro il nostro smarrimento.

Il sacco dunque, pensato per catturare, pescare le cose e il loro significato come fosse una rete, non contiene più, rivela tristemente il fallimento della sua funzione. Ma l'avventura artistica non finisce perché nel 2010 Ugo Gangheri inizia “a togliere i fili”, un lavoro certosino che ritaglia nella tessitura fitta e regolare delle striature nuove, crea varchi, buchi, passaggi. Un lavoro tutto suo, una precisa cifra stilistica. Sfilatura, qualcuno l'ha chiamata, e potrebbe passare inosservata, tutt'al più un ulteriore strumento della composizione materica, non fosse per il suo forte valore simbolico. Viene in mente innanzitutto Penelope, quella che disfaceva la tela di notte per ingannare i Proci, per ingannare ogni domanda procrastinando il tempo della risposta. Azione di altissimo valore simbolico proprio perché contraria a ogni buon senso, a ogni normalità. È come se Penelope si rifiutasse di fissare una sequenza precisa sul lenzuolo funebre di Laerte, di definire il senso di una storia perché fino al ritorno di Ulisse nessuna risposta ha senso, nulla di certo si può scrivere.

Ma la tecnica particolare della sfilatura ci racconta anche altro: il filo della memoria che viene meno, più scendiamo in profondità, meno rimane nel ricordo. Le trame cedono, le maglie si allargano. E allora ecco che l'artista sceglie di fare l'artista fino in fondo, di gestirlo lui questo sfaldarsi delle certezze, di aprirli lui i varchi, di lasciar fuggire le cose. Perché forse l'ultimo grado della scoperta è questo: la libertà, la rinuncia a tenere, a imprigionare, a capire, e la gioia liberatoria di lasciar andare Rinunciare alle risposte e godere piuttosto il fluire libero degli eventi, come il gioioso fuggire dei pesci nel mare aperto quando la rete non tiene più.

Gangheri ci insegna dunque che le cose forse entrano dentro di noi ma il sacco della nostra anima e della nostra percezione è consumato, ha il fondo sfrangiato e l'essenza non resta, resta il ricordo, l'emozione, finalmente, questa sì, roba nostra che ci lascia colorati, che ci lascia qualche traccia, anche se forse è tutt'altro dalla verità delle cose.






Palazzo Frangipane Tolmezzo                             Roberto Zoratto

Collettiva 9 febbraio - 23 marzo 2025  

   

Ugo Gangheri ha sviluppato una vera e propria maestria nell’elaborare e comporre i suoi materiali preferiti, come la tela di sacco e le lamiere corrose dal tempo, con la stessa coralità di colori e forme che ci ricordano quasi un ancestrale graffito rupestre lasciato in eredità all’uomo all’alba di una nuova civiltà. Sembrano tracce di un mondo “altro”, di una diversa dimensione, quella della fenomenologia dello spirito, del sacro, percorso che ogni individuo dovrebbe compiere, partendo dalla propria coscienza, per identificare le manifestazioni attraverso le quali lo spirito si innalza dalle forme più semplici di conoscenza a quelle più generali fino al sapere assoluto. È di questo che l’uomo avrebbe bisogno, di cui avvertiamo la necessità della presenza e della vocazione anche se spesso non osiamo più inoltrarci ed abbandonarci ad esso per mancanza di coraggio, per paura di ciò che vi potremmo trovare e di non saper più riemergere alle amate e abusate comodità della vita.






Galleria d’arte “ERASMO”    - Valvasone                                      

Presentazione di Giulio Boccali

 

“S I N C R E T I S M O”

30 novembre – 22 dicembre 2024

  

 “La piccola città di Verrières può passare per uno dei borghi più graziosi della Franca-Contea. Le sue case bianche dai tetti aguzzi e con le tegole rosse… Il Doubs scorre a poche centinaia di piedi al di sotto delle sue fortificazioni…”. È l’inizio de “Il rosso e il nero”, l’immortale capolavoro letterario di Henry Beyle, in arte Stendhal. Con un piccolo gioco di prestigio, che spero Stendhal avvalli, si può sostituire il nome di Verrières con quello di Valvasone, Franca-Contea con Friuli occidentale e, naturalmente, Doubs con Tagliamento e … il gioco è fatto. Ecco una verosimigliante, plausibile?, descrizione paesaggistica-territoriale di uno dei “borghi più belli d’Italia”: Valvasone.

E in questo angolo di Friuli, ricco di fascino e di storia, grazie a una bella idea – una bella intuizione – di Felice Gri in rappresentanza di “Felice Arte”, il 30 novembre 2024 si è tenuta l’inaugurazione di un’interessantissima mostra d’arte che ha visto protagonisti tre rinomati artisti friulani: Nilo Cabai, Ugo Gangheri e Roberto Milan.

 

Piccola premessa. Mentre camminavo sulle strade di ciottoli, che avevano il potere, la suggestione, di riportarmi indietro nel tempo allo splendore di un’epoca passata, per raggiungere la sede che ospitava la mostra mi sono chiesto, tra me e me, che cosa mi aspetto, quali sono le mie aspettative quando mi reco a un’esposizione artistica e, più in generale, quando incontro l’arte? Sul momento, devo ammetterlo, non mi sono dato una risposta ma…

Il titolo della mostra è “Sincretismo”. E in questo specifico, in questo evento, per sincretismo si deve intendere l’incontro di stili, oso affermare di concezioni, che generano mescolanze, interazioni e contaminazioni artistiche. Sincretismo che qui diventa sinonimo, assume il valore, di sperimentazione, di materialità, di invenzione. E nelle opere di Cabai, Gangheri e Milan, la “contaminazione”, il metissage di diverse visioni autoriali che conduce a un punto d’incontro condiviso, è visibile, quasi tangibile.

 

Alcune osservazioni sulla struttura, sulle strutture, dei quadri e delle sculture presenti in questa mostra possono essere utili per meglio calarci, per avvicinarci, all’arte di questi tre autori.

Nei quadri di Nilo Cabai, frutto di un pensiero e di una concezione solidissima, irrompono i colori, i “suoi” colori, beige, azzurri, blu di diverse gradazioni e tonalità, che sembrano “dialogare” tra di loro in modo del tutto naturale. L’amore per il segno, contraddistinto da linee finissime che separano le sue “vele”, regalano all’osservatore l’idea del dinamismo, l’illusione del movimento. Ugo Gangheri usa materiali diversi, sacchi di caffè, ferro, con senso della misura e sapienza in cui, poi, subentra la sua pittura astratta fatta di figure e colori che si intersecano fra loro e creano una misteriosa interazione tra l’artista e il pubblico.

Anche per le opere di Roberto Milan la cifra distintiva è l’uso di materiali diversi. Legno, metalli e vetri di murano si incontrano in un’alchimia perfetta. Le sue sculture creano un rapporto costante tra oggetto artistico e spazio circostante alla ricerca di un equilibrio possibile.

 

“Universi interiori”. È il titolo di un ciclo di opere di Ugo Gangheri che si presta, mirabilmente, per approfondire qualcosa che, a mio parere, ha a che fare con questa esposizione. Universi interiori, degli artisti e, forse, di riflesso, anche nostri.

Le “vele” di Cabai ci riportano al tempo passato dell’artista, alla giovinezza trascorsa a Trieste, al mare, al vento, alla sua passione, mai sopita, per la classicità e ci introducono a un’interiorità, a un’arte, alla perenne e inestinguibile ricerca di armonia.

Le opere di Gangheri sono un punto d’incontro tra astrazione e sperimentalismo. I suoi cicli artistici che scandiscono un tempo solo suo, esprimono la volontà di andare oltre i muri del conformismo, artistico e non, e tendono a qualcosa di poetico.

Milan con i suoi “totem”, con i suoi studi sui materiali e sulla “verticalità”, compie una ricerca, personalissima, volta a esplorare (e scoprire) il suo universo interiore e il mondo che lo circonda.

 

Invenzione, dal latino inventio-onis, “capacità di trovare” è un gran bel sostantivo. Le opere, appese ai muri, di Cabai e Gangheri e le sculture di Milan che si ergono, nella sala, tra la folla degli osservatori, sono ricche di invenzione. Ed è, forse, questa “capacità di trovare” il fil rouge che contraddistingue l’arte di questi tre autori. Arte caratterizzata da studio, ricerca e da “visioni” frutto di un pensiero innovativo e, soprattutto, libero.

 

All’inizio di questo scritto mi sono posto una domanda: che cosa mi aspetto quando mi reco a una mostra d’arte? Ebbene, non ho ancora una risposta assoluta. Il rimpianto Luciano De Crescenzo, scrittore e filosofo partenopeo, ci ha insegnato a dubitare di chi ha risposte assolute, di chi ha “la verità in tasca”, posso affermare, però, che da un’esposizione artistica mi aspetto di “vedere qualcosa di nuovo”, qualcosa che i miei occhi non hanno ancora visto, qualcosa che sia in grado di appassionarmi e di sorprendermi.

E a Valvasone, in un’umida serata autunnale, all’interno di una sala impreziosita dalle opere e dalle sculture di Nilo Cabai, Ugo Gangheri e Roberto Milan, ho avvertito che si può interrogarsi, si può emozionarsi e, ancora una volta, sorprendersi.

 

 

 

                                                 

Ugo Gangheri - Incedere di trame

 

        Donatella Nonino

 Osservando le opere di Ugo Gangheri si scopre il materiale di base con cui esse sono composte: sacchi usati per il trasporto del caffè. Nelle crettature che soggiogano la materia si trovano compromessi con il colore, con il ritmo geometrico, generosamente armonico,  in una semantica interpretazione del viaggio interiore attraverso lo scandire lento del tempo che rappresentano.

La sua opera diviene linguaggio inconsueto, autonomo e restituisce una forma capace di trasferirsi dall’opera visiva al nostro percepito. Ci troviamo così ad inseguire il nostro mistero intimo e capaci, finalmente, di fermarci, di cedere alla lentezza del procedere, quasi a ritrovare il misticismo insito in noi, chiuso e racchiuso in strade abbuiate.

L’incontro di materiali così diversi come carta e tela di sacco con inclusioni di colore e ferro consunto dal tempo, si compenetrano con rarefatto equilibrio, ristabilendo un ordine delle cose che egli ci propone. La nostra osservazione diventa così esercizio meditativo, un privilegio di percezione, privo di ogni nostalgia del passato e come ordine delle cose per ritrovare la via.

Nel ciclo tematico “Abbracci” abbiamo la sensazione che la fusione delle trame che cede al passaggio del colore, rappresenti l’azione che dovrebbe appartenerci per poter attraversare, oltre l’immagine, un nuovo varco, un nuovo orizzonte. Ci permette inoltre di transitare attraverso la creazione e percepire come egli abbracci il suo sentire, mentre i pensieri trascendono, trasformandosi in azioni artistiche dove le mani, accostando fragilità e durezza sulla superficie della trama, assumono quel potere di mutare le cose.

“Il cielo che è dentro e fuori di noi contagia il nostro incedere” afferma Gangheri. Nelle sue tele “il cielo” si trasforma in un calice, dal quale l’Uomo può nutrirsi. Questo grande valore della vita, il rispetto di essa, emerge nel ciclo “Umanità”. In questo ciclo possiamo scoprire quanta fiducia l’artista riponga in tutti gli esseri senzienti: la strada segnata, illuminata, la si può percorrere in diversi modi.

La scelta di un materiale povero e ingiustamente definito fragile, come può essere il sacco di juta che porta il caffè durante il suo lungo viaggio attraverso terra e mare, è di per sé metafora più che calzante dell’essere umano.

Nel ciclo “Tracce” emergono le capacità insite in ognuno di noi di superare confini e ostacoli materiali e psichici e ci pone la domanda di quanto siamo consapevoli nell’essere padroni del tempo e di quanto, invece, sia il tempo a gestire la nostra esistenza.

Gangheri  nella sua ricerca quarantennale, si è appropriato di un proprio linguaggio pittorico, di una propria cifra artistica.  I  segni, i materiali, le trame, i titoli, sono parti che compongono la poesia dell’opera e sono alla base di un approfondimento evolutivo sull’Uomo. Il suo lavoro è un sedimentare attraverso il tempo delle esperienze.

Negli anni sessanta Gangheri, ancora ragazzo, oltre ad ammirare i quadri del papà  è affascinato dalla pittura di Van Gogh per il segno, i colori, la spontaneità. Nel tempo egli, ormai artista maturo per anagrafica e professionalità, evolve attraverso la conoscenza e l’ispirazione di tanti altri Maestri.

Non è una musica quella che lo accompagna nel centellinare dello svolgersi del suo lavoro, ma sono i suoni che l’umanità restituisce e segna nell’aria, nell’etere, pregna del segno dell’uomo e vissuta dentro e intorno a se stesso. Egli lavora nel suo studio immerso nella campagna friulana, dove i suoni che entrano dall’esterno  gli offrono la percezione  di essere parte integrante della natura e gli restituiscono la bellezza e il mistero della vita, quel mistero che ritroviamo affiorare con forza nelle sue tele.

Dal 2006 Gangheri utilizza  per i suoi lavori sacchi grezzi di juta. Nel 2010 inizia “a togliere i fili”, una litania introspettiva, un rituale, un mantra che gli permette di inseguire il mistero. Il materiale consunto dei sacchi da caffè, carichi di storia e di viaggio, di fragilità e durevolezza sono “Tracce” che conducono alla ricerca da dove veniamo e cosa lasciamo dopo di noi. Il parallelo delle risposte si può trovare nella tangibilità dell’archeologia,  che ci permette di scoprire le civiltà che ci hanno preceduto, facendoci sentire parte di un unico disegno e riconoscendo che anche quel percorso millenario è scritto dentro di noi.

 

Marzo 2023

 


                                      

Vitalità imprigionata.

                                                                                                                                 Donatella Avanzo

Scrivere di Ugo Gangheri non è cosa semplice. Egli opera, in maniera sorprendente, sulla vicinanza di materia e materia, sulla variazione di superficie, sulla sostituzione di un colore con componenti di colore simile ma molto più ricchi di informazioni (lastre di ferro, carta, scarti industriali), derivanti dalla loro consistenza fisica, dal loro uso precedente e dal loro eventuale vissuto;  infine, opera mediante l’origine dei contrasti tra materie diverse e attraverso un istintivo impianto geometrico dell’immagine da ottenere.

Ciò che è più importante nell’analisi dell’artista è il raggiungimento della forma e dello spazio mediante un rapporto di raffinato equilibrio tra i diversi elementi materici che si concretizzano in ogni sua opera.

Attraverso la detessitura di vecchi sacchi di caffè crea la forma geometrica da cui ha inizio la costruzione del suo atto artistico, come per esempio in “Vitalità imprigionata” dove il ferro arrugginito fronteggia lo sguardo dell’osservatore con fierezza e precisione.

Le sue opere sono venate da una grande spiritualità, con sviluppi formali che negli anni lo avvicinano a certe atmosfere dell’Arte Povera.

Le lame metalliche che paiono incidere e squarciare la scomputata trama della iuta attivano il suo linguaggio pittorico e ci spingono a vederci riflessi nelle nostre inevitabili fragilità.

Fragilità, ma anche inesauribile energia vitale rappresentata dai bagliori dell’incorruttibilità dell’oro presente anche nelle  essenziali sculture esposte per la prima volta in questa mostra.

Il ricorso a entità organiche e inorganiche trasforma il suo linguaggio in un’esperienza corporea intesa come trasmissione sensoriale.

La vita pittorica di Ugo Gangheri è stata influenzata da artisti quali Burri, Fontana, Tapies, ma soprattutto da suo padre, anch’egli pittore e appassionato d’arte, che ha saputo trasferire in lui il dono della sensibilità che sta nella capacità di mettere in movimento e in discussione la forma.

 Il suo interesse è quello di studiare gli aspetti materici dell’arte e le sperimentazioni che conducono l’artista e lo spettatore  oltre la superficie del quadro.

In tutta la sua ricerca egli svilupperà anche una relazione del tutto personale con la cultura e l’instabilità sociale della storia attuale che porterà alla realizzazione di cicli tematici:

Tracce, in cui ricerca la sacralità dell’esistenza;

Muri, dove   esplora le barriere che si creano nella società e nell’animo di ognuno di noi;

Umanità, con la sua riflessione sull’atteggiamento evolutivo dell’Uomo.

La ricerca costante di materiali che parlino della fragilità dell’essere umano viene riconosciuta dall’artista nelle lastre di ferro corrose che diventano simboli di quel male che è dentro di noi, che ci devasta e indebolisce, ma che può essere compreso e trasformato in energica creatività per concretizzare rilevanti opere artistiche.

Nei suoi lavori è sempre presente un gioco di metamorfosi e contrasti quali, per esempio, carta e ferro: leggerezza e pesantezza si incontrano in un quieto dialogo che tende ad  armonizzare gli elementi. Il contrasto serve da cortocircuito  visivo che spinge l’osservatore a fermarsi per comprendere il significato di quella vicinanza.

Ugo Gangheri, attraverso il dialogo tra materia organica e inorganica, è espressione di quella cultura e di quella storia che si oppone alla distruzione e all’oblio di questa nostra  società detta Umanità.

                                     

20 marzo 2022

 

            

                         

Scrivere l’altrove. 

        Andrea Gangheri

 

Contemplazione di un quadro.

Una nave cargo con un carico in procinto di finire in acqua, o un palazzo con terrazze-ponte che corrono verso l'infinito?

Faccio un passo avanti per avvicinarmi al dipinto davanti a me.

Scopro trame di tessuto grezzo, scritte stampigliate "coffee", Italia-Italy" e poi tutto a destra in rosso "CHERRY", "41”, e poi in alto una cicatrice orizzontale che percorre tutta la superficie dipinta da parte a parte.

Ritorno un passo indietro per riempirmi gli occhi di questi colori bruciati, marroni, grigi, rosati, che graffiano l'iride e lasciano poche isole di non-colore dove l'occhio si può riposare e sentirsi al sicuro.

Mi giro di spalle, ripasso mentalmente la tela, cercando di andare oltre questo primo strato di forme e colori. Sento il profumo di juta di questo grande arazzo, sento i miei polpastrelli ancora segnati dalla sua superficie ruvida, quasi a richiamare la mia attenzione al qui e  ora, a tornare con i piedi per terra e a smettere di fantasticare.

Ricordo una macchia di colore azzurro che si stacca dalla quasi monocromia di tutta la superficie.

Sarà questo piccolo elemento dentro a una forma che ricorda un calice a rappresentare la "Sacralità”, che l’artista ha scelto come titolo dell’opera? O saranno invece tutte queste sensazioni ed emozioni, provate davanti a questo quadro, che mi restituiscono  la "Sacralità" della vita?

  

 Giugno 2021

 






Fabio Merotto

Siamo abituati ad osservare che in una tela dipinta diventa spesso principale il soggetto rappresentato e i colori stesi, seppur con qualsiasi tecnica, sul supporto. In questi lavori di Ugo Gangheri è proprio il supporto ad avere senso nella  sua pittura.
Tra l'altro si sono invertiti di ruolo il mezzo e il fine.
Se la tela, per necessità, è il mezzo e la pittura è il fine, con il suo fare Ugo Gangheri ha ribaltato la consuetudine, ed è proprio questa azione che ci pone delle riflessioni.
Nei suoi sacchi, quindi, la pittura è il mezzo e la tela è il fine, il risultato e l'obiettivo del suo atto creativo.
Quindi la sua pittura si ribalta; pare che la sua non sia una tecnica mista su sacco, bensì un sacco su tecnica mista. Gli esiti della sua pittura sono stati rivoltati come un tessuto in cui le cuciture sono messe in evidenza e non appaiono scomode.
Le cuciture sono linee che dividono il sacco in più piani pittorici che dialogano tra loro, senza che uno prevalga sull'altro.
I sacchi sembrano imbevuti di colore e l'autore fa emergere le diverse tramature che fanno rima con le campiture di colore.
Nei suoi sacchi la materia è supporto.
La ruvidezza della materia è sinonimo di sacrificio, fatica e sudore per il lavoro nelle piantagioni di caffè, come si legge nelle geometrie che l'autore pone in evidenza.
Un'opera non solo va osservata ma anche letta per fare nostra un'esperienza personale.
                                                                                                                                              
Gennaio 2019






Alessandra Santin

Cecelia Ahern ricorda a Ugo Gangheri che è necessario scartare cose per trovare la materia che meglio si presta al proprio sentire. La trama di vecchi sacchi industriali, sottoposta a detessitura, gli consente di sconfinare oltre il visibile. Trafori e composizioni sapienti dichiarano quanto l’Oltre e l’Alto rappresentino i suoi punti di ri-ferimento.
Lo sguardo si eleva nella sacralità delle forme e nelle ferite orizzontali suturate. La carica simbolica di antichi dei primordiali, nell’immobilità rituale, annuncia valori inalienabili.
La bellezza di certe tinte inedite, in dialogo con la ruvida evidenza della materia trova, nel contrasto e nell’opposizione, le vie dell’armonia, del dialogo poetico che sempre rinnova la lettura. Il risultato, astratto e figurativo, è leggibile e oscuro allo stesso tempo; è la conseguenza di un processo costruttivo elaborato, la cui percezione che ne consegue è sempre lenta. Nelle opere si annida una morfologia invisibile che è la parte integrante e più significativa del lavoro.
Essa va pazientemente cercata. Trovarla è emozione pura, canto opaco di luce palpitante.

Settembre 2017




                                                                                                                                      Licio Damiani

Sinfonie cromatiche e icone laiche nella fastosa pittura di Ugo Gangheri

La pittura di Ugo Gangheri come avventura dello spirito, come esperienza artistica vissuta in connessione dinamica con la realtà esistenziale, sembra tradurre in immagine le tensioni cromatiche, i contrasti tonali, l'estrema complicazione e la raffinatezza della dodecafonia. Le opere più recenti assorbono e reinventano in termini personalissimi la tradizione del cubismo, del dadaismo, del neoplasticismo, rileggono il fervore fantastico di Kandinskji, restituiscono con un linguaggio estremamente libero e tutto inventato le astrazioni favolistiche, l'arcano potere d'incanto, l'apparente ingenuità, le sembianze di pietre preziose, affioranti nelle opere di Klee. L'immediatezza del gesto pittorico, trattenuta entro strutture di una geometria dell'immaginario, compone enigmatici paesaggi interiori, fastosi caleidoscopi di luci, incandescenze e grotte d'ombra.
Si dispiegano equilibri di spezzoni blu, celesti, gialli e frammenti d’arcobaleni rossi e violetti, “cinture” azzurre raccordano scaglie arancione, cunei madreperlati, mezzelune inchiodate su cieli di nero-carbone. S’impennano magiche tastiere di gialli e di carmini, di bruni, di terre di Siena, d'incandescenze dorate, di opalescenze, di grigi perlati, di verdi profondi, di cilestri. Allucinazioni agglutinate di elementi indefiniti si riflettono e rifrangono in moltitudini di specchiere. Bagliori fiammeggiano su tarsie brune e grigie. Quadrangoli irregolari, elementi trapezoidali, fasce, rettangoli, cerchi s’incrociano e si compenetrano componendo cromatiche sinfonie. Il colore, il disegno, le masse plastiche si articolano in un’armonia di forme pure, opulente. Sono visioni rigorose, antidecorative, espressioni di un sognante raccoglimento fondato su un intenso afflato contemplativo.
A partire dal 2010 affiora nella pittura una severa umiltà francescana. L’utilizzo della bellezza fragile della tela grezza di juta, che per certi aspetti apparenta il friulano Gangheri all’umbro Burri, sembra far risuonare mistiche “voci del silenzio”. Il sacco di caffè – ha scritto l’artista – da materiale di trasporto, stivato nelle navi e depositato nelle fabbriche, continua a vivere trasfigurato da interventi sulla trama, si colora con le tinte dei luoghi ideali di partenza e di arrivo, diventa visibile negli spazi espositivi. Utilizzando colori a olio intrisi di acqua ragia e colle resinose ottiene insoliti contrasti di atmosfere lucide e opache, elaborando articolate, flessibili, lucide litanie. Sui fili tattili annodati e intessuti d’una materia la cui povertà esalta la delicatezza lirica, semplici purissime forme elaborano sequele liturgiche intrise d’una pacata musicalità gregoriana. Riflessi di conopei, i tessuti che velano il tabernacolo eucaristico, riverberano orfici sentimenti d’attesa. Oltre i luoghi, oltre i pensieri – afferma l’artista – risiede l’ignoto,  dimora il mistero, esplode il sentire, s’irradia la luce dell’anima.
Quadri come tarsie, tracce, impronte, o come icone laiche sottese da una sacralità interiorizzata, rebus complessi ricchi d’insondabili precetti, di segrete pulsioni del cuore. Suggestive reliquie del presente che veicola la purezza attraverso l’impurità, si propongono quali sudari del mondo contemporaneo attraversati da una sottile fisicità, torbidi come certi catrami, anche se in grado di abbagliare all’improvviso per insospettati lucori simili a lame di luce nei mattini invernali, intrisi a volte come di teneri sentimenti d’umiltà e di mansuetudine, altre volte carichi d’una implacabilità austera e laconica. L’artista riproduce quanto nella sua mente vede di eterno e d’immutabile, tenta di rendere visibile l’invisibile, attraverso la materia aspira a raggiungere l’immateriale in tensione verso la trascendenza dell’assoluto.

Gangheri  è friulano di Povoletto. Ha scritto nel depliant-catalogo di una sua mostra personale lo storico dell'arte Walter Schönenberger, già direttore di musei svizzeri, sentimentalmente vicino al Friuli dove per alcuni anni è vissuto, che egli negli anni giovanili si concentrava su vedute di Cividale: il ponte sul Natisone (ripreso in un dipinto del 2004), le case della città, i monti retrostanti, resi con un susseguirsi di strisce di colore. Nel percorso verso la maturità le tele prendono a configurarsi quali mappe topografiche di territori ideali, di visioni oniriche, di luoghi chimerici e fiabeschi. Il linguaggio, come ossessionato dal gusto della ripetizione, si dispiega in una molteplicità di variazioni d’aspetto "barbarico", signoreggiato d'accentuazioni timbriche, da energia e da opulenza di ritmi.
Elementi ricorrenti, quasi delle sigle, sono le partiture di casette stilizzate disposte in orizzontale o in verticale entro riquadri compenetrati, fra lampeggiamenti, misteriose fluorescenze, fluire di linee ondulanti simili a fiumi o a strade. Il contrapporsi di enigmatici glifi e coppie di congegni fantasmatici dalla vaga sembianza di aerostati o di sagome meccaniche  connota ossessivamente questi territori della fantasia. Un'allucinazione  tradotta in articolazioni di segni e di tinte sublima, dissolvendoli, gli spunti descrittivi.
 Al paesaggio oniricamente figurativo l’artista – come si è sopra ricordato - ritorna nella prima metà degli anni Duemila, innestandolo nel canale principale della sua produzione, che rilegge la storia della pittura astratta e di una misurata action painting mantenendosi peraltro attento e fedele alle soggettive pulsioni del cuore. In un dipinto d’impostazione drammaticamente cinematografica la scultura di un Cristo medioevale priva di braccia, evocante il mutilo Crocifisso di Gemona eretto a simbolo del terremoto del 1976, si proietta in primo piano su un pannello scuro, incastonato sotto un cielo cupo, nella facciata del Duomo cividalese, gotica nella parte inferiore di Bartolomeo delle Cisterne, progettata con taglio rinascimentale da Pietro Lombardo in quella superiore.
Il panorama della città longobarda, in Nuovo giorno, emerge come un’immateriale apparizione morganatica, mentre in Studio si dissolve in vapori violetti. S’intitola Tempi Nuovi il monocromo verde pallido di un borgo alpestre dominato da una trasparente catena alpina. In Verso casa il gruppo di abitazioni con la chiesetta e il campanile è attraversato diagonalmente dalla fascia blu scura di un corso d’acqua. Una Finestra inquadrata da specchiature lignee apre su un villaggio innevato di montagna.
In parallelo un lento svaporare degli elementi più marcatamente realistici affiora nella sequenza di dipinti raccolti sotto il titolo In viaggio. Sagome femminili formano una processione policroma, calchi di ragazzi siedono su invisibili panchine affiancati da orme di grandi teste, greggi di pecore come rozzamente intagliate in listelli lignei sciamano guardate dal simulacro di un pastore, segni antropomorfi vengono tracciati con cangiante linguaggio cromatico fauve ricco di richiami a calligrammi e arabeschi orientali echeggianti il decorativismo espressivo di Matisse.  Fusione poetica tra sentimento della realtà e pura invenzione pittorica offre la deliziosa Bambina con lo slittino in vesticciola sfolgorante di candore, campita su un fondale trapunto d’arazzo intriso di richiami matissiani, sebbene di tonalità basse e uniformi.
E singolare intensità espressionistica emana dai ritratti degli anni Ottanta. Straordinaria esasperazione espressionistica ha il volto di uomo anziano composto con un fitto aggrumarsi di colori macerati, dal  titolo Tensione .Il naso adunco e incurvato nel calvo profilo fiammeggiante di Nonno Meni, “stracciato” su un fondo azzurro, ricorda il becco di un uccello rapace. In Ricordi si disegnano sul supporto giallo-verde le sinopie di un ragazzino ripreso frontalmente e di una maschera carnevalesca. Nell’Angelo il messaggero celeste tracciato graficamente emerge sulla tunica dorata di Papa Giovanni XXIII rappresentato con fedeltà fisionomica.
Infine un piccolo gioiello è il Ritratto di giovanetta  con cappello maschile. Si campisce con sorridente espressione leggermente ironica su un fondale fucsia reso gestualmente. Nella scrittura forte e rotonda sembra riallacciarsi alla ritrattistica inglese del Sette e Ottocento corrosa in soluzione novecentista.

Agosto 2014




 Viaggio e cammino.



 […..] Le essenze che io, come architetto e insegnante, conosco, sono due o tre, e sono la città e l’architettura come madre delle arti e le loro interazioni, che lì dentro nei quadri di Gangheri si ritrovano.



[…..] Quando ero giovane non avevo soldi per acquistare delle opere d’arte. Ma è stato Ugo Gangheri che mi ha messo in contatto con una casa editrice di Lucerna, la quale offriva, a buoni prezzi, ottime riproduzioni di importanti opere dell’arte moderna. So che la mia scelta di allora è stata una riproduzione di un’opera di Max Ernst  “La città intera”. L’originale si trova al “Kunsthaus” di Zurigo, ma ricordo ancora quella riproduzione, appesa alle pareti della mia cameretta. Non so per quale motivo alcuni quadri di Ugo Gangheri mi riportano a quel dipinto di Max Ernst. Forse perché si intitola “La città intera” e io nei quadri di Ugo riconosco una forte urbanità? Le tele di Gangheri sollevano in me delle domande. L’approfondimento di tali domande mi da un senso di felicità.



[…..] Passeggiando fra i quadri ed entrando nei dipinti è come se l’artista fosse sempre al mio fianco, in quanto le tele sono una parte di lui; una parte sostanziale. Di questo, per la sua presenza, gli sono infinitamente grato.



Innanzitutto riconosco ai quadri la loro presenza nell’ambiente. Cerco di percepirli nella loro posizione espositiva, nei loro rapporti che assumono sulle cose e sulle persone nell’ambiente, nelle relazioni che intrecciano fra di loro, ma anche nei rapporti che instaurano con i quadri esposti negli altri locali ed infine nei rapporti che incontrano nello spazio esterno, in Altdorf,  nel cantone Uri, per poi ritornare negli aspetti generati dal mio pensiero. Così mi reco anch’io dentro un viaggio interiore ed in questo viaggio percepisco sempre di più i quadri stessi. L’ambiente architettonico tridimensionale, lo spazio del quadro bidimensionale e l’unidimensionale spazio delle relazioni, si intrecciano in reticoli, in una struttura, dentro la quale vagabondo attraverso molte strade. Il contenuto del quadro non mi si rivela semplicemente ed esclusivamente attraverso l’osservazione dello stesso, piuttosto, se cerco di percepirlo attraverso le sue molteplici relazioni mi lascia intuire l’estensione delle sue possibilità.  Ugo Gangheri, proprio per questo fatto, ha per me, come fruitore dei quadri, non solo investito il suo tempo, capacità, dedizione e pazienza per la loro realizzazione, ma ha anche scelto il preciso posizionamento dei quadri all’interno degli spazi espositivi.



Più mi avvicino ai quadri, più mi addentro, tanto meglio percepisco anche le relazioni che si intessono fra gli stessi. Innanzitutto percepisco oggetti architettonici, case, gruppi di case, città, strade, ponti, fiumi, laghi, impianti naturali e artificiali; ma anche schemi zoomorfi che possono mutare in figure antropomorfe. Molte tele sono somiglianti fra loro, come se la stessa storia, lo stesso contenuto dei fatti fosse accennata nuovamente, ma da un altro luogo o sopra un territorio diverso. Mi posso però muovere anche su un altro piano di percezione e così continuare il mio viaggio, mettendo in relazione fra loro i campi colorati e le figure, alla ricerca di un mio diverso approfondimento.



E improvvisamente mi accorgo, che a me viandante, qualche volta, viene dato un sistema di coordinate cartesiano: è la trama intessuta del sacco che funge da supporto al dipinto. Però non rimane solo una struttura intrecciata, perché su questa rete naturale l’artista ha apportato delle incisioni o ha piegato con effetto plastico delle cuciture presenti sul sacco.



Pino Pilotto

“Ugo Gangheri – Viaggio e cammino”

Mostra presentata negli spazi espositivi del Centro Q4 Altdorf Ost (Svizzera) - 8 maggio 2009
Traduzione dal tedesco di Ugo Gangheri



Dai paesaggi di Cividale  alle tensioni cromatiche.

Tarsie, impronte di vividi pigmenti, l'immediatezza del gesto pittorico trattenuta entro strutture di una geometria dell'immaginario compongono paesaggi interiori di sole, fantasiosi caleidoscopi di luci, incandescenze e grotte d'ombra. La mostra di Ugo Gangheri a Palazzo Frangipane di Tarcento sembra tradurre in immagine le tensioni cromatiche, i contrasti tonali, l'estrema complicazione e la raffinatezza della dodecafonia. Quadri di un'allucinazione lirica sublimano, dissolvendoli, gli spunti figurativi.
Gangheri è friulano di Povoletto. Come scrive nel depliant-catalogo lo storico dell'arte Walter Schönenberger, già direttore dei civici musei di Lugano, stabilitosi da alcuni anni a Siacco, in precedenza la sua pittura si concentrava su una veduta ricorrente di Cividale: il ponte sul Natisone, le case della città, i monti retrostanti, resi con un susseguirsi di strisce di colore. Gradualmente la ricerca si è sganciata dalla resa naturalistica per tradursi in un'articolazione di segni e di tinte, che mantiene peraltro l’ancoraggio a elementi narrativi divenuti frasi simboliche. Le tele esposte a Tarcento potrebbero configurarsi quali mappe topografiche di territori ideali, di visioni oniriche, di luoghi chimerici e fiabeschi. II linguaggio, come ossessionato dal gusto della ripetizione, si dispiega tuttavia in una molteplicità di variazioni che conferiscono alle tele una sorta di aspetto "barbarico" signoreggiato d'accentuazioni timbriche, da energia e da opulenza di ritmi.
Elementi ricorrenti, quasi delle sigle, sono le partiture di casette stilizzate disposte in orizzontale o in verticale entro riquadri compenetrati, fra lampeggiamenti, misteriose fluorescenze,fluire di linee ondulanti simili a fiumi o a strade. II contrapporsi di enigmatici glifi e la coppia di congegni fantasmatici dalla vaga sembianza di aerostati o di sagome meccaniche connota ossessivamente questi territori della fantasia.
Gangheri rilegge la storia della pittura astratta e dell'action painting. In alcuni passaggi par evocare le ambigue illusioni, l'arcano potere d'incanto, l'apparente ingenuità, le sembianze di pietre preziose, affioranti nelle opere di Klee. E tuttavia si mantiene fedele al genius loci, al ricordo di una regione dell'anima. Dai suoi reticoli, dalle griglie, dalle tastiere magiche di gialli e di violetti, di rossi e di carmini, di bruni, di terre di Siena, d'incandescenze dorate, di opalescenze, di grigi perlati, di neri carbone, di verdi profondi, di blu e di cilestri, si levano spirituali lampeggiamenti.

Licio Damiani   
(Messaggero Veneto/Album/21/06/2008)





Il viaggio nell’interiorità.



La ricerca di un artista è essenzialmente un percorso (a ritroso, nel profondo) verso la definizione della propria identità: ciò che, al di là della specificità dell’artista, è il cammino che si propone (dovrebbe proporsi) ogni uomo. Ugo Gangheri, da molti anni artista nel tempo libero, da pochi, dopo il pensionamento, è artista a tempo pieno e non sfugge a questa regola. La sua produzione può essere divisa in due grandi raggruppamenti che delineano una sorta di “prima” e di “dopo”: nel secondo, che coincide con il raggiungimento di una completa dedizione alla pratica artistica, si assiste al progressivo affermarsi di uno stile, al delinearsi di un’immagine interiore, di una propria immagine simbolica che è riconoscimento della propria specificità e capacità di esprimerla e di proporla senza gravami illustrativi. Ed è su questa produzione matura che s’impernia la presente mostra.

Nel periodo precedente, un paesaggio aveva fissato l’attenzione dell’artista diventando un’immagine ricorrente: la veduta di Cividale, con davanti, in primo piano, il ponte sul Natisone. Il ponte verticale, al centro del quadro, le case della città, i monti retrostanti, come un susseguirsi di strisce di colore. Codesta veduta diventa  il nocciolo di una ricerca che a poco a poco si  sgancerà  da  una  resa naturalistica    del    soggetto:     diventerà   canovaccio   per un’immagine interiore sempre più definita.

Dal 2005 in poi, i titoli diversificati non ci sono più; rimane un impianto, i particolari descrittivi del dipinto scompaiono. Un approccio a una non figurazione che non sarà mai tale perché rimarrà comunque ancorata a una realtà percepita. Codesta immagine è anche una proiezione di una visione interiore (come spiegato prima): una fuga verso l’orizzonte che indica l’infinito. Da questo momento i quadri saranno contrassegnati da un’unica definizione: “Il viaggio”. Sull’orizzonte della composizione appare una teoria di figure incamminate, una dietro l’altra, che si tramuta in una scansione di segni.  Una  nuova  immagine  archetipa  è definita. Un corteo è figure in movimento, un passare. Ma a volte il fluire ha pause: nell’orizzontale compare un’immagine statica evocante un’attesa. Codesta immagine ne viene spesso incorniciata dal resto del dipinto, formando un quadro nel quadro; in tal modo ogni riferimento naturalistico è cancellato. Nasce lo spazio indefinito della memoria in cui guizzano figure accennate di giocattoli colorati: “Ricordi fanciulli” (così li chiama il pittore concedendosi una spregiudicata libertà nei confronti della lingua!). A livello tecnico, una novità: i ricordi sono immagini accennate con immediatezza gestuale.

Nella produzione recente (che è quella che ci riguarda più da vicino), il tema del viaggio” e  il  tema  dell’”attesa”  si ripetono,  si  combinano   in   numerosi   varianti. Questo  iter  è discesa nelle profondità  di sé stesso e contemporaneamente impossessamento di una pennellata sempre più fluida e di una gamma cromatica sempre più riconoscibile. Ugo Gangheri vi ha incontrato il proprio stile, la propria musica interiore, il proprio contenuto. Accantonata la descrizione del “viaggio” in una teoria di soggetti incamminati, come in processione, torna l’immagine del ponte, non più librata  verso  l’alto, come nelle precedenti vedute di Cividale, ma ricondotta al “viaggio” interiore: discesa in sé stesso che è anche ponte verso l’altro.  Questo  doppio movimento  genera una figura simbolica doppia che vagamente  ricorda  due  persone unite da un arco (o da un “ponte”). Si precisa una sorta di nuovo glifo che è anche la firma dell’artista. Il viaggio, fino a questa nuova immagine, è stato anche individuazione di sé stesso, di un proprio discorso prettamente pittorico, con i colori che da tonali via via si sono fatti timbrici e ora cominciano a brillare puri come soggetti liberati. In questo modo Ugo Gangheri si è guadagnato il titolo di pittore di tutto rispetto e di notevole spessore. 



Walter Schönenberger  


Siacco   di   Povoletto,   17  aprile  2008                                         






Ugo Gangheri attraversa il ponte della conoscenza.



   Il tema del viaggio e quello dell'attesa - aspetti complementari e speculari che si confrontano - sono all’origine della ricerca più attuale di Ugo Gangheri. L’artista, che espone a palazzo Frangipane di Tarcento, nella personale "Il viaggio nell’interiorità”, presenterà circa trenta opere della sua produzione più recente, incentrate proprio sul concetto dei viaggio.

   Dal 2005, il pluriennale percorso artistico di Gangheri abbandona il figurativo per addentrarsi nell'interiorità con l'intento di rendere, attraverso gli strumenti della pittura, quella visione inconscia che è in ognuno di noi. Ecco allora che, sull'orizzonte della composizione che si fa preludio d'infinito, appare una teoria di figure incamminate, talmente stilizzate che divengono puro colore, quasi puro spirito. Ma la ricerca di Gangheri prosegue.

    Viaggio, cammino, attesa: sono questi i nuclei forti della sua pittura che si mescolano, si giustappongono, si combinano in una moltitudine di varianti in cui spicca la forma del ponte, già oggetto privilegiato della fase figurativa della pittura di Gangheri come fondamento per raggiungere “l’altro”. Una volta chiaramente identificato il “sé”, attraverso l’esplorazione dell’arte, dei moti dell'anima e dei pensieri  più profondi, ogni uomo tende all'altro, in una continua ricerca interiore che getta le basi per il ponte della conoscenza. E nelle trenta opere  in mostra a Tarcento, oltre che costruito, l'artista il ponte l’ha pure attraversato.





Vito Sutto


(Il Friuli/La cultura friulana/06/06/2008)


Spazio Corte Quattro, Cividale del Friuli

(…) Ugo Gangheri raccoglie in questa mostra tutte le sensazioni, i colori, le pulsazioni del Friuli, con una partecipazione naturale e particolarissima ai paesaggi di Savorgnano del Torre e del cividalese. Gangheri trasmette alla sua pittura le emozioni del mattino, del meriggio e della sera. La mostra  sembra proprio scandire questi momenti della nostra giornata in una terra, quella friulana, che offre una sua intima poesia suscitando emozione e dolcezza.
Una pittura di emozione questa di Gangheri, questo si, una pittura di sentire, che si origina dal percepire gli spazi e i tempi della giornata della vita, sia quella vissuta in Svizzera, sia quella friulana che possiede Cividale e Povoletto come possibilità, come natura e appartenenza.
Un lago svizzero rappresenta la memoria, un ricordo antico nel destino, un bisogno di richiamare sentimenti, un panorama di Savorgnano come di Cividale è invece un’ancora in un presente vivo e palpitante, netto di oggettualità e di richiami concreti.
Mi pare di trovarmi di fronte ad una mostra che scandisce i tempi della vita per quelle tonalità blu e azzurre che richiamano quasi lontana un’alba di luci improvvise. E’ l’alba e tutto si illumina, la luce si depone chiara sulle cose ed il paesaggio si apre ad una nuova dimensione. E poi ecco scandito il tempo del meriggio, con i suoi colori chiari, con i villaggi che si aprono in una sorta di vitalità gentile, dove l’umanità pur non vedendosi si percepisce per la sua vitale presenza, per la sua spiritualità abbozzata.
Ma dopo la vibrante giornata ecco sopraggiungere la sera con le sue tonalità che sembrano negare ciò che è accaduto, che paiono scoprire nuove luci e nuovi colori, che sembrano domare le accensioni solari, la sera che si ripropone nella pace di sfumature indelebili, tracce, memorie, sospiri.
Una pittura che è un racconto e che è parola, che è lettera aperta ad un paesaggio amato che il pittore sembra sempre scorgere sorpreso e attonito per la prima volta, anche se tante volte ha guardato e spesso ha tracciato nella sua tela; “Una sottile poesia dell’esistenza”

Vito Sutto

Ottobre 2004



Spazio Corte Quattro, Cividale del Friuli

(…) L’entusiasmo che ci ha spinti a intessere una collaborazione sincera con l’artista savorgnanese trova la sua ragion d’essere nella predilezione che Gangheri ha per Cividale, nell’amore per gli scorci che la città offre e per l’orizzonte naturale che la circonda e l’abbraccia in una sintesi tra cielo e terra. Nei lavori di Gangheri, infatti, è possibile cogliere, quasi in un mondo ovattato di fiaba, la simbiotica fusione delle individualità cromatiche in cui lo sguardo dell’osservatore trova l’estatica risposta alla personale ricerca di pace.

Negli orizzonti tenui e quasi evanescenti sembra di cogliere la voce suadente dell’infinito: non a caso nella produzione artistica di Gangheri non c’è un prima e un poi, ma si respira, in una rappresentazione dolce e delicata, tenera e ammaliante, un ambiente famigliare in cui ci si può ritirare in personale meditazione alla ricerca di se stessi, troppe volte vittime di un mondo senz’anima.

Giuseppe Schiff

Ottobre 2004





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